Elementi storici e pratica attuale di impianti Wedge form per la riabilitazione implantoprotesica delle edentulie in mascellari atrofici

Historical notes and current practice of “wedge form” implants used in implant prosthetic rehabilitation of edentulous atrophic jaws

Scopo del lavoro: Le gravi atrofie dei mascellari edentuli necessitano di interventi chirurgici ricostruttivi al fine di rendere possibile l’inserzione di impianti root form di diametri adeguati per la realizzazione di riabilitazioni protesiche fisse, funzionalmente e temporalmente valide. Negli anni passati, in presenza di creste atrofiche, hanno trovato fattivo utilizzo impianti “wedge form” (a lama) in considerazione dei loro ridotti spessori compatibili con quelli esigui delle creste edentule. Attualmente, tale tecnica ha ritrovato nuovi consensi grazie all’utilizzo del bisturi piezoelettrico ad ultrasuoni che rende più agevole l’osteotomia.
Materiali e metodi:

Il procedimento chirurgico classico prevede la preparazione del solco osteotomico con fresa “a fessura” 700XL montata su turbina sotto raffreddamento con soluzione fisiologica. Oggigiorno, la breccia chirurgica può essere realizzata con il bisturi piezoelettrico ad ultrasuoni. Il solco chirurgico deve avere i seguenti requisiti:

1) una lunghezza pari o leggermente maggiore alla lunghezza mesio-distale dell’impianto selezionato;

2) una larghezza, in senso vestibolo linguale, lievemente inferiore alla larghezza del bordo superiore dell’impianto scelto, così da inserirlo passivamente nel solco solo per qualche millimetro;

3) dopo l’inserimento a percussione (press-fit), si ottiene una stabilità primaria immediata;

4) la profondità deve essere almeno pari all’altezza della lama misurata dal suo margine inferiore fino alla base del moncone protesico avvitabile;

5) la spalla dell’impianto deve affondare di almeno 2 mm al di sotto del margine della cresta ossea. La sovrastante mucosa va suturata con punti staccati.

Risultati:

Vengono presentati 4 casi. Primo caso: ponte inferiore destro (1998) con follow up di 21 anni. Secondo caso: monoedentulia del 24 con grave atrofia ossea (1988) con follow up di 25 anni. Terzo caso: full arch inferiore su impianti con due lame distali 36,46 (1987) con follow up di 31 anni. Quarto caso: due ponti mandibolari con lame in posizione 37,47 (2000) con follow up di 9 anni. Per l’inserzione delle lame nei primi tre casi è stata utilizzata la tecnica classica, nel quarto caso il piezobisturi.

Tenuto conto di quanto sopra, la tecnica descritta può essere considerata di successo ed affidabilità in tutti quei casi clinici dove si vogliono evitare interventi di chirurgia ossea di incremento volumetrico.

 

Le gravi atrofie dei mascellari edentuli necessitano di interventi chirurgici ricostruttivi al fine di rendere possibile l’inserzione di impianti root form di diametri adeguati per la realizzazione di riabilitazioni protesiche fisse, funzionalmente e temporalmente valide.

Le tecniche di incremento osseo (GBR, split-crest e innesto) che rappresentano, attualmente, l’opzione terapeutica più proposta dagli operatori sanitari, spesso, però, non vengono accettate dai pazienti per gli importanti costi biologici, economici e per la dilatazione dei tempi di intervento e guarigione.

Negli anni passati, in presenza di creste atrofiche, hanno trovato fattivo utilizzo impianti “wedge form” (a lama) in considerazione dei loro ridotti spessori compatibili con gli esigui diametri trasversi delle creste edentule.

L’utilizzo di tale tipo di impianto risale ai lontani anni sessanta, quando, per la prima volta, ne fu proposto l’uso da Leonard I. Linkow. Da allora, a seguito di uno specifico percorso di formazione, la loro applicazione si è diffusa in tutto il mondo. Linkow dimostrò con interventi eseguiti in pubblico (1) che, nelle creste ossee sottili, il mantenimento dell’integrità delle corticali permette il carico immediato.

In Italia, un’importante rielaborazione tecnica dell’impianto a lama fu proposta da Ugo Pasqualini.

Attualmente, tale tecnica ha suscitato rinnovato interesse grazie all’utilizzo di nuovi strumenti chirurgici, tra cui i martelletti pneumatici e meccanici ed il bisturi piezoelettrico ad ultrasuoni, che semplifica la realizzazione dell’osteotomia.

Gli impianti a lama (wedge concept, profilo cuneiforme) e plate form (2) rientrano nelle innovazioni implanto-protesiche degli anni ’60 e, per un certo periodo, hanno rappresentato l’impianto endosseo di maggiore utilizzo (in figura 1 alcune delle morfologie più comuni).

Fig. 1. Alcune delle morfologie della lama wedge form di Linkow.
Fig. 1. Alcune delle morfologie della lama wedge form di Linkow.
Fig. 1
Fig. 1

Furono presentati alla comunità scientifica internazionale da Leonard Linkow nel 1968, che già nei primi anni cinquanta ne proponeva l’utilizzo (3-6), previa realizzazione di un’osteotomia longitudinale sulla cresta ossea edentula che necessitava di riabilitazione funzionale.

In particolare, l’intervento prevedeva l’apertura di un lembo a tutto spessore tale da consentire la completa scheletrizzazione della parte superficiale della cresta sulla quale, poi, veniva praticato un solco sagittale, su misura, per alloggiare la parte sommersa della lama.

Secondo le sue linee guida (7), i solchi vanno preparati con frese a fessura, montate su trapano ad alta velocità e sotto abbondante raffreddamento. Quindi, la lama viene appoggiata con la parte basale all’interno del solco e fatta affondare con uno apposito battente tramite un martelletto chirurgico (tecnica press-fit). In tal modo si ottiene l’approfondimento del dorso della lama stessa di circa 2 millimetri al di sotto del bordo osseo, così da garantire la completa ricopertura da parte del tessuto osseo riparativo.

Una volta allocata la lama all’interno della compatta ossea, ciò che emerge da questa e dalla relativa mucosa di copertura è il moncone protesico.

La presenza di tale moncone emergente esposto, si è visto, nel tempo, essere causa di incompleta osteointegrazione per la continua azione di disturbo della lingua durante le fasi della deglutizione durante il periodo dell’osteogenesi riparativa (8).

Per ovviare a tale situazione, nel 1972 Ugo Pasqualini realizzò una modifica della lama (figura 2) e, in particolare, dell’emergente moncone protesico, facendolo realizzare di ridotta altezza e filettato (9).

Figura 2. Il disegno originale e la metodica del moncone avvitabile della lama wedge form di Pasqualini.
Figura 2. Il disegno originale e la metodica del moncone avvitabile della lama wedge form di Pasqualini.

Ciò consentì di ovviare a quei micromovimenti sostenuti dalla lingua, causa di alcuni fallimenti. Tali fallimenti sostanzialmente erano dovuti ai micromovimenti (superiori a 150 micron) prodotti dalla lingua (10,11).

Altra problematica riscontrata era la frattura da fatica del collo della lama (11,12), responsabile di fallimenti tardivi della riabilitazione implantoprotesica. Attualmente il possibile insuccesso è stato superato potenziando la resistenza del collo stesso (figura 3).

Figura 3. Frattura da fatica del collo della lama per decementazione della protesi. Si osservi il moncone fratturato e la completa integrità del tessuto osseo includente.
Figura 3. Frattura da fatica del collo della lama per decementazione della protesi. Si osservi il moncone fratturato e la completa integrità del tessuto osseo includente.

Gli impianti a lama possono presentare la versione emergente, semi-sommersa e sommersa (13).

In merito alla preparazione del letto osseo, la metodica originale richiede una particolare abilità chirurgica. L’utilizzo del bisturi piezoelettrico ad ultrasuoni ha semplificato la tecnica di preparazione del solco di inserimento aumentando, nel contempo, nelle zone particolarmente critiche, la sicurezza di non ledere i tessuti molli in profondità e, nello specifico, la componente vascolo-nervosa (14).

Da quanto sopra si evidenzia, quindi, in linea generale, come l’impianto a lama (fig. 4, sotto, una block-section di lame) , dato l’esiguo spessore, trova elettiva applicazione nelle creste edentule atrofiche e sfrutta gli ancoraggi dati dalle corticali contigue laterali che garantiscono la stabilità primaria, facilitando l’osteointegrazione (15, 16). Dal punto di vista istologico, il comportamento del tessuto osseo includente la lama nelle sue varie morfologie è lo stesso di quello di tutti gli impianti endoossei in titanio (16-19).

Fig 4a. Una visione macroscopica.

Nonostante ciò, ancor oggi, solo pochi operatori usano l’impianto a lama e, cosa che ancora più fa riflettere, è che tale tecnica sia poco studiata e per nulla insegnata da gran parte del mondo accademico, più indirizzato, invece, verso soluzioni rigenerative del tessuto osseo per l’inserimento di impianti root-form.

Materiali e Metodi

Salvo casi eccezionali, la tecnica di inserzione di un impianto a lama richiede l’anestesia locale, che è più che sufficiente a garantire il confort utile ad eseguire l’intervento.

Può essere eseguita sia iniettando una dose ridotta di articaina con adrenalina 1:100.000, vestibolarmente e lingualmente alla cresta ossea. È anche possibile eseguire un’anestesia intraligamentosa lungo tutto il tratto apicale della cresta edentula stessa.

Questo tipo di anestesia, consentendo di mantenere la sensibilità del tronco del nervo alveolare inferiore, garantisce la conservazione da parte del paziente di una sufficiente sensibilità, tale da permettere la verifica continua, durante l’intervento, dell’avvicinamento alla struttura vascolo-nervosa.

Una volta eseguita l’anestesia viene scollato un lembo muco periosteo a tutto spessore: questo va eseguito in cresta senza la creazione di svincoli laterali per non sottrarre nutrimento all’osso già di per sé di ridotto spessore e, quindi, atrofico.

Il procedimento chirurgico classico prevede la preparazione del solco osteotomico con fresa “a fessura” montata su turbina sotto raffreddamento con soluzione fisiologica. I solchi vengono realizzati per una profondità pari a garantire l’inglobamento di tutta la porzione endoossea della lama che viene alloggiata in profondità con la citata tecnica press-fit.

Dopo un periodo di almeno tre mesi, a osteointegrazione completata, si rimuovono le cappette di guarigione, si posizionano i monconi (gli abutment) definitivi e si procede alla protesizzazione.

In alcuni casi, quando non è possibile collegare la lama con altro impianto, la riabilitazione protesica fissa può essere realizzata con un elemento naturale come pilastro portante (11).

Come precedentemente riportato, oggigiorno, la breccia chirurgica può essere realizzata con il bisturi piezoelettrico ad ultrasuoni con montata una fresa di metallo “a punta seghettata a 5 denti” (tipo ES071).

Il solco chirurgico deve avere i seguenti requisiti: una lunghezza pari o leggermente maggiore alla lunghezza mesio-distale dell’impianto selezionato; una larghezza, in senso vestibolo linguale, lievemente inferiore alla larghezza del bordo inferiore dell’impianto scelto, così da rendere impossibile l’inserimento passivo dello stesso nel solco se non per qualche millimetro, in modo che, dopo l’inserimento a percussione (press-fit), si ottenga una stabilità primaria immediata; la profondità deve essere almeno pari all’altezza della lama misurata dal suo margine inferiore fino alla base del moncone protesico avvitabile.

La spalla dell’impianto deve affondare di almeno 2 mm al di sotto del margine della cresta ossea. La sovrastante mucosa va suturata con punti staccati.

L’utilizzo del bisturi piezoelettrico ha reso più fruibile l’esecuzione dell’osteotomia, passaggio tecnico che ha sempre costituito un ostacolo per i meno esperti.

Anche in considerazione della “riscoperta” delle lame e di un loro “ripristino in uso” nella pratica clinica routinaria ad opera di diversi autori, la Food and Drug Administration (FDA) ha riqualificato l’impianto a lama portando il rischio chirurgico dal grado 3 al grado 2 alla stregua di tutti gli altri impianti normalmente utilizzati (20).

Casistica clinica

Primo caso: (figura 5 e 6) paziente di sesso femminile, razza caucasica, anni 51, con edentulia del settore molare mandibolare di destra. Dopo l’inserimento della lama con tecnica classica e la successiva osteointegrazione, il caso è stato risolto con una protesi fissa “a ponte” in metallo ceramica ancorato ad un elemento naturale devitalizzato (anno 1998).

Allo stato attuale la paziente presenta lo stesso dispositivo protesico funzionalmente valido in assenza di patologie a carico di tessuti molli e osseo.

Figura 5. Il solco chirurgico e la lama inserita correttamente nella zona edentula e atrofica della mandibola dopo fallimento di innesto con osso autologo e la radiografia a caso ultimato 1998 (a sinistra). Il ponte in metallo ceramica ed il controllo radiografico dopo 21 anni di funzione 2019 (in basso).
Figura 6. Il ponte in metallo ceramica e il controllo radiografico dopo 21 anni di funzione 2019.

Secondo caso: (figure 7-9) giovane paziente di sesso maschile, razza caucasica, anni 19, con monoedentulia iatrogena del primo premolare superiore sinistro risolta nell’anno 1988 con inserzione di un impianto a lama. In questo caso si è utilizzato un impianto a lama perché questo è particolarmente adatto a sopportare forze vestibolarizzanti, sia perché la sua superficie piatta distribuisce le forze su una maggiore area di tessuto osseo, sia perché può essere inserito con un’inclinazione in senso palatale minore rispetto a quella di un impianto di spessore maggiore.

Al 2013 (ultimo check up), non si sono evidenziati segni di infiammazione dei tessuti molli e particolari problematiche di tipo estetico.

Figura 7. La grave atrofia post estrattiva: il solco chirurgico e la lama inserita con il moncone preprotesico avvitato nel 1988 (sotto).

Figura 8. Il moncone preprotesico rimosso e la radiografia dell'impianto in sede (sotto).
Figura 8. Il moncone preprotesico rimosso e la radiografia dell’impianto in sede (sotto).

Figura 9. La corona in metalloceramica e il controllo radiografico (sotto) a distanza di 25 anni (2013).
Figura 9. La corona in metalloceramica e il controllo radiografico (sotto) a distanza di 25 anni (2013).

Terzo caso: (figura 10) paziente di sesso maschile, razza caucasica, anni 40, con lame inserite nel 1987 nei settori distali della mandibola e viti di scuola italiana, bicorticali, nei settori frontali. Il controllo eseguito nel 2018 non mostra segni di sofferenza ossea.

Figura 11. L'edentulia totale di una mandibola risolta con due lame di Pasqualini e 6 viti bicorticali di scuola italiana elettrosaldate (1987-2018). Dopo 31 anni di funzione si nota un modesto riassorbimento mucoso nel settore frontale pur nell’ottima tenuta del tessuto osseo (foto inferiori).
Figura 10. L’edentulia totale di una mandibola risolta con due lame di Pasqualini e 6 viti bicorticali di scuola italiana elettrosaldate (1987-2018). Dopo 31 anni di funzione si nota un modesto riassorbimento mucoso nel settore frontale pur nell’ottima tenuta del tessuto osseo (foto inferiori).

Quarto caso: (figura 11 e 12) paziente di sesso femminile, razza caucasica, anni 48, con edentulia multipla. Nel 2010, con tecnica piezoelettrica, sono stati inseriti due impianti a lama nei settori distali della mandibola.

Figura 11. Atrofia mandibolare risolta con la chirurgia piezoelettrica e implantologia a lama (2010).
Figura 11. Atrofia mandibolare risolta con la chirurgia piezoelettrica e implantologia a lama (2010).
Figura 12. L'aspetto della mucosa attorno al moncone preprotesico della lama di sinistra e il ponte definitivo in metalloceramica. L'OPT del caso a 9 anni.
Figura 12. L’aspetto della mucosa attorno al moncone preprotesico della lama di sinistra e il ponte definitivo in metalloceramica. L’OPT del caso a 9 anni. 

Discussione e conclusioni

L’impianto a lama cronologicamente fa parte delle novità implantoprotesiche della fine degli anni ‘60. Il suo utilizzo ebbe il suo massimo sviluppo nel decennio successivo durante il quale fu modificato e migliorato assumendo per un certo periodo il ruolo dell’impianto più diffuso nel mondo. In seguito all’avvento degli impianti root form, l’utilizzo delle lame è andato in progressivo disuso. Solo pochi operatori, anche in considerazione delle richieste competenze chirurgiche elevate, hanno mantenuto l’uso di questa tecnica, riservandone l’elettivo utilizzo alle zone atrofiche edentule dei settori distali della mandibola e, talvolta, anche ai settori con grave deficit di spessore osseo del mascellare superiore.

La tecnica chirurgica classica costituisce la base operativa per questo tipo di impianti, anche se necessita di particolare perizia per evitare eventuali errori, specie nella fase di preparazione del letto implantare e di inserzione del dispositivo.

Per i colleghi che iniziano ad inserire le lame, le difficoltà operative sono diminuite con l’introduzione in campo chirurgico del bisturi piezoelettrico, i cui vantaggi sono la minor invasività, la facilità di tagli micrometrici e selettivi, l’effetto cavitazione, la riduzione del riscaldamento dei tessuti, l’estrema precisione e sicurezza con pieno rispetto dei tessuti molli (in particolare il nervo alveolare inferiore); il tutto per garantire una buona visione del campo operatorio, una migliore toilette chirurgica e, soprattutto, una maggiore tranquillità lavorativa.

Il bisturi piezoelettrico è importante soprattutto nelle prime fasi dell’esecuzione dell’osteotomia, le cui rifiniture possono essere eseguite utilizzando frese multi-lame montate su turbotrapano, secondo la tecnica classica.

Tenuto conto di quanto sopra, la tecnica descritta può essere considerata di successo ed affidabilità in tutti quei casi clinici dove si vogliono evitare interventi di chirurgia ossea di incremento volumetrico.

Bibliografia:

 

  1. Linkow LI. 4 live interventions on patients. Chicago Midwinter Meeting, 1973
  2. Hughes C. Letter to the editor. JOI Vol.XL/No.Five/2014:523-524
  3. Linkow LI. The blade vent-a new dimension in endosseous implantology. Dent Concepts 1968;11:3-12.
  4. Dal Carlo L, Pasqualini ME, Carinci F, Corradini M, Vannini F, Nardone M, Linkow LI. A brief history and guidelines of blade implant technique: a retrospective study on 522 implants. Annals of Oral & Maxillofacial Surgery 2013 Feb 01;1(1):3.
  5. Dal Carlo L, Pasqualini M.E, Nardone M, Linkow L. Blade implants in the treatment of thin ridges. Implants the Intrnational C.E. Magazine of Oral Implantology North American Edition 2013; 2: 15-18.
  6. Linkow LI, Winkler S, Shulman M, Dal Carlo L, Pasqualini ME, Rossi F, Nardone M. A New Look at the Blade Implant. J Oral Implantol. 2016 Aug;42(4):373-80.
  7. Linkow LI. Endosseous bladevent implant-insertion guidelines. Dentistry Today. 1984 Jun;III(6)
  8. Dal Carlo L. Tongue’s Influence on the Integration of Endosseous Implants. Doctor OS Mag. 2003;14(5): 479-484.
  9. Pasqualini U. Impianti Endoossei: La protezione dell’osteogenesi riparativa con la metodica del “moncone avvitato”. Tecnica personale. Dental Cadmos, 8; 1972.
  10. Pasqualini U. Le Patologie. Occlusati-Masson 1993
  11. Pasqualini U, Pasqualini M.E. Treatise of Implant Dentistry. Ariesdue Carimate Como; 2009.
  12. Pasqualini ME. Le fratture da fatica dei metalli da impianto. Il Dentista Moderno 1993;2:31.
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  14. Rossi F, Pasqualini ME, Grivet Brancot L, Colombo D, Corradini M, Lorè B, Calabrese L. Minimally invasive piezosurgery for a safe placement of blade dental implants in jaws with severe bone loss. J Osseointegr 2014; 6(3): 56-60.
  15. Strecha J, Jurkovic R, Siebert T, Prachar P, Bartakova S. Fixed bicortical screw and blade implants as a non-standard solution to an edentulous (toothless) mandible. Int J Oral Sci. 2010 Jun;2(2):105-10.
  16. Linkow LI. Implant dentistry today. A multidisciplinary approach. 1990 Piccin Nuova Libraria S.p.A.
  17. Ricciardi A. A two Year Report of a Human bone block. Quintessence International Dental Dygest 1977;1:9
  18. Di Stefano D, Iezzi G, Scarano A, Perrotti V, Piattelli A. Immediately loaded blade implant retrieved from after a 20-year loading period: a histologic and histomorphometric case report. Http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/17009561. J Oral Implantol. 2006;32(4):171-6.
  19. Trisi P, Quaranta M, Emanule M, Piattelli A. A light microscopy, scanning electron microscopy and laser scanning microscopy analysis of retrieved blade implants after 7 to 20 years of clinical function. A report of 3 cases. J Periodont May 1993;64(5):374-378.
  20. FDA considers reclassification of dental implants. Dental Tribune International; News Americas 05/feb/2013
To cite:

DoctorOS, XXX 8

Materials and methods:

The classical surgical procedure involves the preparation of the osteotomic groove by a 700XL fissure bur mounted on a turbine under cooling with physiological solution. Nowadays the surgical incision can be realized with the piezoelectric ultrasonic scalpel. The surgical groove must have the following requirements:

1) a length equal to or slightly greater than the mesial-distal length of the selected implant;

2) a lingual-buccal width slightly less than the width of the upper edge of the chosen implant, so as to passively place it in the groove for a few millimeters;

3) after percussion insertion (press-fit), immediate primary stability is achieved;

4) the depth must be at least equal to the height of the blade measured from its lower edge to the base of the screw-retained prosthetic abutment;

5) the shoulder of the implant must sink at least 2 mm below the margin of the bone crest. The overlying mucosa must be sutured with detached points.

Aim of the work:

The severe atrophies of the edentulous jaws require surgical bone restorations where to place root form implants of adequate diameter so as to achieve fixed, functionally and temporally valid prosthetic rehabilitations. In past years, in the presence of atrophic crests, “wedge form” (blade) implants have been found to be effective in consideration of their reduced thickness compatible with the one of edentulous ridges. Currently this technique has found new consents thanks to the use of the ultrasonic piezoelectric scalpel that makes the osteotomy easier.

Results:

Four cases are presented.

First: lower right bridge (1998) with 21-years follow-up.

Second: single tooth loss of 24 with severe bone atrophy (1988) with 25-years follow-up.

Third: lower full arch on implants with two distal blades 36.46 (1987) with 31-years follow-up.

Fourth: two mandibular bridges with blades in position 37,47 (2000) with 9-years follow-up. In the first three cases the classic technique was used for the insertion of the blades, as well piezoelectric ultrasonic scalpel was in the fourth case. Given the above, the described technique can be considered successful and reliable in all those clinical cases where volumetric augmentation bone surgery is to be avoided.