Abusivismo e convenienza a delinquere: esiste una correlazione?

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L’esercizio abusivo di una professione è punito dall’art. 348 del codice penale con la pena alternativa della reclusione fino a sei mesi o della multa da 103 a 516 euro. La sanzione si applica nei confronti di chiunque abusivamente eserciti una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato.
Il requisito dell’abusività richiede che la professione sia esercitata in mancanza dei requisiti richiesti dalla legge, come ad esempio il mancato conseguimento del titolo di studio, il mancato superamento dell’esame di Stato ovvero anche la mancata iscrizione presso il corrispondente Albo.
Il bene protetto dalla norma penale è sostanzialmente il buon andamento della pubblica amministrazione volto a garantire agli organi competenti l’esclusivo potere di disporre della titolarità dell’esercizio delle pubbliche funzioni e dei pubblici servizi. In questo modo viene a garantirsi, indirettamente, per le professioni sanitarie, il diritto alla salute della popolazione quale diritto fondamentale costituzionalmente garantito. La norma richiamata, in altre parole, intende tutelare l’interesse generale affinché determinate professioni, in ragione della loro peculiarità e della competenza richiesta per il loro esercizio, siano svolte solo da chi sia provvisto di una specifica abilitazione rilasciata dallo Stato e sia iscritto al relativo Albo (presumendo in tal modo che il professionista abbia e mantenga quelle competenze che costituiscono il proprio bagaglio culturale e scientifico).
In altri termini, l’art. 348 c.p. non solo punisce il soggetto che esercita una determinata professione senza avere i requisiti di competenza tecnica ma anche il soggetto che sebbene astrattamente competente (esempio la sola laurea) non abbia ottenuto successivamente l’abilitazione richiesta dalla legge ovvero non sia iscritto all’albo, in quanto è interesse dello stato accertare non solo la competenza del sanitario ma anche la probità e il costante aggiornamento professionale dello stesso.
Proprio in ragione di ciò, il titolare dell’interesse protetto non è il privato-paziente che con il suo preventivo consenso potrebbe scriminare la condotta dell’agente (abusivo), ma è lo Stato che ha un precipuo interesse generale di garantire il rispetto del diritto fondamentale della salute. Sul punto, però, la giurisprudenza più attenta ha avuto modo di ricordare che accanto all’interesse strettamente pubblicistico esistono almeno ulteriori due interessi concomitanti: in primo luogo, colui che agisce senza la prescritta abilitazione con la sua condotta abusiva causa discredito all’intera categoria professionale e, in seconda istanza, arreca un pregiudizio patrimoniale nei confronti dei professionisti che invece sono regolarmente iscritti (Cass. pen., Sez. V, sent. 04.4.2014, n. 31814).
Secondo la maggioritaria giurisprudenza commette il reato di esercizio abusivo della professione il soggetto che svolge attività “tipica e di competenza specifica” della professione regolamentata senza essere iscritto all’Albo professionale. Tra gli atti riservati rientrano non solo gli atti tipici, ma anche atti strumentalmente connessi ai primi qualora posti in essere in modo continuativo e professionale (Cass. pen., Sez. VI, ord. 28.9.2011).
Ma la norma, dopo queste premesse auliche, è ben assistita da una adeguata sanzione che scoraggi una condotta abusiva?
Dispone l’art. 348 c.p.: “Chiunque abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da euro 103 a euro 516”.*

Risulta infatti chiaro che la sanzione prevista dal vigente art. 348 c.p. non è adeguata sia con riferimento alla gravità del bene protetto dalla norma sia in relazione alla natura che la sanzione penale vuole perseguire.
Sulla natura della sanzione penale esistono tre principali teorie:

  • teoria della retribuzione, secondo la quale la pena è il corrispettivo del male commesso verso l’ordinamento sociale;
  • teoria dell’emenda, per cui la pena ha scopo di permettere il ravvedimento del reo;
  • teoria della prevenzione: secondo cui la sanzione deve avere il potere dissuasivo verso chi fosse tentato di commettere un reato.

È evidente, anche tenuto conto dell’entità della casistica, che la sanzione prevista dall’art. 348 c.p., il quale punisce il reo “alternativamente” con reclusione fino a sei mesi o con la multa da euro 103 a euro 516, appare chiaramente inidonea a sanzionare il reato di esercizio abusivo della professione dell’odontoiatra posto che l’entità della sanzione non è sinallagmaticamente corrispondente al danno causato dal reo (avuto riguardo anche del bene della salute sotteso). Parimenti, non pare la sanzione possa essere idonea a garantire un ravvedimento del reo posto che la condotta dell’abusivo è volta a garantirsi una professione che non ha, sicché è in re ipsa la volontà e la coscienza del reo di esercitare abusivamente la professione che non può (accettando anche il rischio dei pericoli sanitari sottesi). Del pari, l’entità della sanzione non può avere carattere dissuasivo e non contribuisce ad alcuna prevenzione del reato in parola posto che l’entità pecuniaria, alternativa alla detenzione, appare del tutto irrisoria. ●

* È bene ricordare che alla fine del 2014 è stato presentato un progetto di legge (AC 2281) volto a modificare l’art. 348 c.p. La proposta di legge prevedeva un inasprimento dell’originaria sanzione escludendo innanzitutto l’alternatività della pena detentiva con quella pecuniaria e aumentando la pena edittale con la reclusione fino a due anni e con la multa da 10.000 euro a 50.000 euro. La proposta non è divenuta legge dello Stato.
A cura di: Giovanni Pasceri