Didattica e formazione professionale odontoiatrica in Italia agli inizi del ‘900

Qualche considerazione storica - parte prima

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In vari precedenti articoli abbiamo rimarcato come la pietra miliare della rinascita odontoiatrica italiana sia rappresentata dal Decreto Boselli, che sanciva l’obbligo della laurea in medicina e chirurgia per l’esercizio professionale odontoiatrico.

Fu certamente un percorso irto di difficoltà; sappiamo tuttavia come ciò fu solo un punto di partenza (seppure fondamentale), dato che per una serie di problematiche esso divenne operativo solo una ventina di anni più tardi.

Come accennato, i punti focali del decreto si incentravano sulla istituzione di dentisti laureati. La sola laurea possibile, allora, era quella in medicina e chirurgia, che consentiva di abilitare alla professione di qualsiasi disciplina medica.

Risultò pertanto implicito il riconoscimento dell’odontoiatria come branca della medicina, essendo la bocca una parte del corpo umano.

Tale concezione, nota allora sotto il nome di “principio stomatologico”, risulterà poi determinante nell’evoluzione dell’odontoiatria italiana; fu infatti in seguito all’azione di molti stomatologi, capeggiati da Amedeo Perna (1875-1948), che non venne presa in considerazione la proposta di legge mirante all’istituzione di una laurea autonoma in odontoiatria, su modello americano, ideata da Angelo Chiavaro (1870-1944).

Da questa fondamentale distinzione si riuscì a superare la considerazione, allora imperante, che la cura dei denti dovesse essere considerata una professione sanitaria minore.

A differenza degli Stati Uniti di altre nazioni europee, dove la figura del dentista professionista era soggetta ad un iter curriculare specifico, in Italia si preferiva optare per un medico che avesse la possibilità di esercitare anche senza una specifica preparazione.

Il primo passo verso un lungo cammino, che doveva portare a liberare l’odontoiatria dal limbo del ciarlatanesimo in cui era da secoli confinata, era in questo modo compiuto.

Rimaneva insoluto, o meglio, non del tutto considerato, il nodo della formazione professionale.

Ci si accontentava, in sostanza, di inserire la clinica odontoiatrica quale insegnamento facoltativo nei corsi di laurea in medicina e chirurgia, senza preoccuparsi di fornire gli strumenti atti all’esercizio professionale.

Possiamo affermare che non vi era né mentalità né cultura stomatologica, anche da parte di autorevoli personalità del mondo accademico; l’importanza di cure adeguate non veniva, salvo alcune voci fuori dal coro, minimamente sentito. Addirittura, nella migliore delle ipotesi, venivano forniti ai futuri medici solo pochi rudimenti di anatomia e patologia odontostomatologica nell’ambito del corso di patologia o clinica chirurgica presso le facoltà di medicina di alcune università del Regno.

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Solo pochi e lungimiranti uomini di cultura compresero in realtà l’esigenza rivoluzionaria di garantire una preparazione seria ed adeguata a chi volesse dedicarsi a tale disciplina; ed il 31 luglio 1890 l’Università di Pavia, grazie all’opera dei clinici chirurghi Enrico Bottini (1835-1903) ed Iginio Tansini (1855-1943) ebbe, in Italia, il primo libero docente di clinica odontoiatrica nella persona di Carlo Platschick (1853-1912).

Sull’esempio di quanto avvenuto a Pavia anche altri atenei del Regno d’Italia bandirono concorsi; così nel 1892 Ludovico Coulliaux ottenne la libera docenza a Parma, Pasquale Scervini nel 1903 a Napoli, Pier Michele Giuria nel 1904 a Genova, Angelo Chiavaro nel 1905 a Roma, Gian Battista Franci nel 1906 a Siena, Arturo Beretta nel 1911 a Bologna, Camillo Palazzo nel 1912 a Torino, Giuseppe Cavallaro nel 1913 a Firenze, Achille Ribolla-Nicodemi nel 1915 a Palermo.

In quasi tutte le università, quindi, vi fu un insegnamento ufficiale della materia, che non era purtroppo molte volte collegato all’esistenza di un reparto clinico: pertanto fu possibile impartire solo alcune nozioni teoriche di una materia che invece, per la sua stessa natura, esige una pratica costante.

Vi furono, ovviamente, delle notevoli eccezioni determinanti per l’evoluzione storica della disciplina. È noto il ruolo avuto in tal senso dall’Istituto stomatologico italiano secondo gli intendimenti del fondatore Carlo Platschick; è opportuno ricordare in questa sede che tale istituzione non era stata concepita solo come clinica per la cura delle patologie orali ma anche come unità didattica.

Già in precedenza, nel 1905, a Milano, la locale associazione sanitaria aveva istituito corsi pratici di perfezionamento per medici della città e della provincia, della durata di due mesi l’uno: fra questi era compreso un corso di stomatoiatria e odontologia affidato allo stesso Platschick.

Fra l’altro, presso l’Istituto stomatologico, Platschick ottenne di poter fondare, nel 1909, la prima Scuola di perfezionamento in stomatoiatria italiana, di durata biennale. Questa era riservata ai laureati in medicina e chirurgia che volevano esercitare la professione odontoiatrica; doveva offrire agli aspiranti dentisti non solo il titolo di specialista in odontoiatria, ma anche, diremmo precipuamente, un completo insegnamento, in modo che acquisissero quella preparazione teorico-pratica che a livello scolastico allora difettava.

Nel primo anno le materie di insegnamento erano: embriologia e istologia orale, fisiologia orale, patologia speciale orale, patologia dentale, odontoiatria operativa, materia medica terapeutica orale. Nel secondo anno si passava a odontotecnica, ortopedia dento-facciale, protesi, clinica chirurgica orale e peribuccale, odontoiatria infantile. Alla fine dei corsi, dopo avere sostenuto gli esami di profitto annuali e discusso una tesi di argomento odontostomatologico, il medico frequentatore poteva ottenere il diploma di perfezionamento in stomatoiatria.

Particolarmente qualificato il corpo docente: lo stesso Platschick, oltre alla direzione della scuola e dell’istituto, tenne per sé gli insegnamenti di odontotecnica, ortopedia dento-facciale e protesi; a Gaetano Fasoli, che doveva in seguito diventare cattedratico di clinica odontoiatrica a Milano, vennero affidati quelli di embriologia e istologia normale e patologica orale. Altri liberi docenti, quali Riccardo Avanzi e Camillo Rovida, furono titolari rispettivamente dei corsi di patologia speciale orale e odontoiatria operativa e materia medica; Ludovico Coulliaux, uno dei nomi di spicco della neonata istituzione, docente a Pavia di clinica odontoiatrica, fu insegnante di patologia speciale dentale e terapia conservativa.

Ma la personalità di maggior prestigio era il chirurgo Iginio Tansini, ordinario a Pavia di medicina operatoria e clinica chirurgica, il quale insegnava clinica chirurgica buccale e peribuccale, dando anche alcune nozioni di chirurgia maxillo-facciale.

Ovviamente, oltre alle lezioni teoriche, dovevano essere garantite le dimostrazioni pratiche, tenute da medici che si erano perfezionati presso importanti istituti esteri: fra questi ricordiamo Emilio Aguzzi, Giovanni Bardelli, Gino Benedini, Paolo Bottoni, Giambattista Ciceri, Aldo Maggioni Winderling, Cesare De Bernardi, Agostino Orlandi.

Platschick volle dare alla didattica un’impronta prettamente pratica: secondo la sua concezione, gli allievi dovevano uscire dalla scuola già in grado di lavorare sul paziente.

Lo studente del primo anno iniziava pertanto lo studio della terapia conservativa imparando a formare varie specie di cavità su un blocco d’avorio, per poi otturarle con diversi materiali; appena impadronitosi di questa tecnica passava ad operare su manichino; in seguito, sotto la guida del dimostratore, interveniva sul paziente con difficoltà graduali.

Analogo sistema era adottato per la chirurgia dentaria e per la protesi. Prima di agire sul paziente l’allievo poteva fare esercitazioni sul cadavere o su simulatori.
Platschick, infatti, era molto rigoroso nel pretendere che coloro che si rivolgevano in qualità di pazienti al suo istituto fossero curati alla perfezione; pertanto i giovani medici non dovevano esercitarsi su di loro, ma compiere un percorso formativo graduale sotto la guida di personale esperto.

Grande importanza era poi data anche alla tecnica istologica, con esercitazioni pratiche in laboratorio.

Completavano l’attività didattica alcune conferenze di natura specialistica, che avevano la funzione di trattare argomenti di materie non presenti nell’ordinamento degli studi del corso. Così Cosimo Binda, libero docente a Pavia di medicina legale, tenne una conferenza sulla legislazione odontostomatologica e sul rischio professionale; Arturo Beretta, incaricato di clinica odontoiatrica all’Università di Bologna, sulle “Teorie dominanti sulle affezioni del legamento alveolo-dentale”; Luigi Devoto, ordinario di medicina del lavoro a Milano, sulle “Malattie professionali nel cavo orale”.

Un primo passo verso l’affermazione scientifica dell’odontoiatria, con un importante punto di riferimento formativo per il medico dentista era dunque compiuto.

L’Istituto stomatologico italiano si appoggiava, da un punto di vista accademico, all’Università di Pavia, allora unico ateneo lombardo; l’amicizia e la collaborazione esistenti fra Carlo Platschick e Ludovico Coulliaux, nel frattempo diventato professore incaricato di clinica odontoiatrica a Pavia, scaturirono nella fondazione di quello che è considerato il primo Istituto di odontoiatria universitario, avvenuta appunto a Pavia nel 1912.

È vero che nella Università di Napoli (1903, Scervini) ed in quella di Roma (1905, Chiavaro) erano presenti locali atti alla pratica delle cure odontoiatriche, gestiti dal professore libero-docente della disciplina, tuttavia si può con certezza affermare che non trattavansi di istituti veri e propri, non avendo caratteristiche di cliniche autonome, essendo in ambo i casi ospitati all’interno dell’Istituto di clinica chirurgica.

Pertanto tale priorità spetta all’Università di Pavia, che grazie anche all’azione dell’allora rettore Camillo Golgi riuscì ad ottenere, dopo difficili ed estenuanti trattative, dall’amministrazione dell’Ospedale S. Matteo tre locali di Palazzo Del Maino, in affitto per la somma di 270 lire annue.

Così poteva iniziare l’attività clinica e didattica del nuovo Istituto. La sede, in verità era alquanto modesta: constava infatti, come già detto, di tre piccoli locali di trenta metri quadri complessivi; nella prima stanza vi era l’anticamera-laboratorio, la seconda fungeva contemporaneamente da sala di ambulatorio ed aula per le lezioni, la terza, senza finestre, serviva da sala radiografica, con un vecchio e voluminoso apparecchio contemporaneo alla scoperta di Roentgen, e da ripostiglio.