Scusi, ma lei è HIV positivo?

    Scusi, ma lei è HIV positivo?

    A distanza ormai di oltre 40 anni dalla comparsa dei primi casi di HIV, virus che attacca e distrugge in particolare i linfociti CD4, un tipo di globuli bianchi responsabili della risposta immunitaria dell’organismo, si possono contare 79 milioni di persone al mondo che hanno contratto l’infezione, 36 milioni che sono decedute per la patologia correlata AIDS e 38 milioni di persone che convivono con HIV.

    Ancora oggi, parlare di HIV/AIDS significa affrontare un argomento scomodo, sebbene il contesto clinico e sociale sia radicalmente cambiato nel corso degli ultimi 20 anni. La forbice della diseguaglianza sottesa al fenomeno HIV è ancor più ampia tra paesi poveri e ricchi e in particolare in questi ultimi porta all’emarginazione se non all’esclusione sociale.

    Tutto ciò assume una gravità ben maggiore se si pensa che per merito dei successi raggiunti dalla ricerca nel campo delle terapie antiretrovirali, le persone con HIV ad oggi possono curarsi con grande efficacia, raggiungendo anche uno stato di non infettività grazie alla soppressione della carica virale. Nel 2019 il ministero della Salute ha promosso una consensus conference su U=U (undetectable equals untrasmittable)1, il cui risultato principale può esser riassunto in: se la carica virale di una persona con HIV non è rilevabile, il virus non è trasmissibile.

    Tuttavia, come accennato in precedenza, ancora oggi l’argomento HIV rappresenta un tabù. Quel che più colpisce è l’approccio di alcuni medici nei confronti di coloro che sono HIV positivi. Ho avuto il piacere di confrontarmi sul tema con la presidente nazionale della Lega italiana per la lotta contro l’AIDS (LILA) – Giusi Giupponi – la quale mi ha rappresentato le difficoltà che incontrano le persone HIV positive nel ricorrere a qualunque tipo di cura, per la paura del rifiuto da parte di alcuni operatori sanitari. Premettendo che l’ambito sanitario è quello in cui si subiscono più discriminazioni, mi ha inoltre riportato due episodi vissuti in prima persona, uno in ambito odontoiatrico – circa 20 anni fa – e uno avvenuto più recentemente in ambito dermatologico, quando, nel segnalare la propria positività, è stata di fatto “respinta”.

    Non desidero entrare nel merito di tali deplorevoli comportamenti. Ricordo solo che: “Il medico tutela il minore, la vittima di qualsiasi abuso o violenza e la persona in condizioni di vulnerabilità o fragilità psico-fisica, sociale o civile in particolare quando ritiene che l’ambiente in cui vive non sia idoneo a proteggere la sua salute, la dignità e la qualità di vita. Il medico segnala alla Autorità competente le condizioni di discriminazione, maltrattamento fisico o psichico, violenza o abuso sessuale”2, e che, in quanto medici, abbiamo giurato “di curare ogni paziente con scrupolo e impegno, senza discriminazione alcuna, promuovendo l’eliminazione di ogni forma di diseguaglianza nella tutela della salute; di perseguire con la persona assistita una relazione di cura fondata sulla fiducia e sul rispetto dei valori e dei diritti di ciascuno e su un’informazione, preliminare al consenso, comprensibile e completa; di attenermi ai principi morali di umanità e solidarietà nonché a quelli civili di rispetto della autonomia della persona”.

    Poche settimane addietro, un collega mi ha formulato un quesito: se sia lecito sottoporre ai pazienti un questionario anamnestico (alcuni gestionali li forniscono già predisposti dalla software house, in altri casi lo studio odontoiatrico li crea autonomamente) all’interno del quale venga esplicitamente richiesto agli stessi se siano o meno HIV positivi.

    Per rispondere a questa domanda, il punto di partenza è sicuramente la legge n. 135/90 “Programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro l’AIDS” (vedi box 1). Una legge che nacque, tra le altre cose, per tutelare i diritti delle persone HIV positive.

    BOX 1

    Legge n. 135/90

    box-01

    Art. 5 Accertamento dell’infezione

    1. Gli operatori sanitari che, nell’esercizio della loro professione, vengano a conoscenza di un caso di AIDS, ovvero di un caso di infezione da HIV, anche non accompagnato da stato morboso, sono tenuti a prestare la necessaria assistenza adottando tutte le misure occorrenti per la tutela della riservatezza della persona assistita.
    2. Fatto salvo il vigente sistema di sorveglianza epidemiologica nazionale dei casi di AIDS conclamato e le garanzie ivi previste, la rilevazione statistica della infezione da HIV deve essere comunque effettuata con modalità che non consentano l’identificazione della persona. La disciplina per le rilevazioni epidemiologiche e statistiche è emanata con decreto del ministro della Sanità che dovrà prevedere modalità differenziate per i casi di AIDS e i casi di sieropositività.
    3. Nessuno può essere sottoposto, senza il suo consenso, ad analisi tendenti ad accertare l’infezione da HIV se non per motivi di necessità clinica nel suo interesse. Sono consentite analisi di accertamento di infezione da HIV, nell’ambito di programmi epidemiologici, soltanto quando i campioni da analizzare siano stati resi anonimi con assoluta impossibilità di pervenire alla identificazione delle persone interessate.
    4. La comunicazione di risultati di accertamenti diagnostici diretti o indiretti per infezione da HIV può essere data esclusivamente alla persona cui tali esami sono riferiti.
    5. L’accertata infezione da HIV non può costituire motivo di discriminazione, in particolare per l’iscrizione alla scuola, per lo svolgimento di attività sportive, per l’accesso o il mantenimento di posti di lavoro.

    Il provvedimento più interessante (e determinante), che non lascia spazio ad interpretazioni sul richiedere o meno informazioni ai pazienti circa la positività all’HIV, è stato emesso dal Garante per la protezione dei dati personali nel 2009 (vedi box 2).

    BOX 2

    IL GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI

    box 2

    Ordinanza ingiunzione – 10 giugno 2021
    Registro dei provvedimenti n. 239 del 10 giugno 2021

    PREMESSO

    IL RECLAMO

    Con nota del XX, il Sig. XX formulava un reclamo avverso la richiesta, da parte del dott. YY, di compilare un questionario al fine di accedere ai servizi dentistici offerti presso il suo studio medico. Secondo quanto riportato, attraverso il suddetto questionario, distribuito e poi raccolto all’atto dell’accettazione del paziente, veniva richiesto, nell’ambito di una raccolta anamnestica generale, di dichiarare anche l’affezione (o il sospetto) di eventuali malattie infettive, quali tubercolosi, epatite A, B, C e HIV (AIDS). Il reclamante rappresentava che, dopo aver fornito l’informazione relativa alla sua positività all’infezione da HIV, il medico avrebbe avvertito lo stesso di non poter prestare l’attività professionale richiesta, in quanto “la sua diagnosi di sieropositività all’HIV non gli permetteva di scongiurare un possibile contagio del personale e degli altri pazienti”.

    CONCLUSIONI

    Emerge che la raccolta della predetta informazione non ha raggiunto il fine concreto di valutare la migliore terapia per il paziente, offrendogli la prestazione dovuta, eventualmente anche con un rafforzamento delle protezioni dal rischio del contagio (la cui adozione, si ricorda, con riferimento a quelle di carattere generale è, in ogni caso obbligatoria per tutti gli operatori, nelle strutture sanitarie ed assistenziali, pubbliche e private; a queste si aggiungono le precauzioni specifiche per gli operatori odontoiatrici “considerato che, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, non è possibile identificare con certezza tutti i pazienti con infezione da HIV” (cfr. premesse e artt. 1 e 4 del d.m. 28 settembre 1990), quanto, piuttosto, quello di allontanare il paziente stesso rifiutandosi di somministrare le cure dallo stesso richieste.

    Pertanto, si confermano le valutazioni preliminari dell’Ufficio e si rileva l’illiceità del trattamento di dati personali effettuato dal dott. YY, in violazione dell’art. 5 del Regolamento (UE) 2016/679, nei termini di cui in motivazione.

    In particolare, si osserva che:

    • il trattamento dei dati effettuato ha riguardato informazioni sullo stato di salute, in particolare, relative all’ infezione da HIV, per le quali il legislatore ha previsto una tutela rafforzata dell’interessato e potenzialmente di tutti i pazienti del dott. YY;
    • l’interessato ha subito conseguenze pregiudizievoli per l’effetto della condotta del medico, in quanto non ha ricevuto la prestazione sanitaria richiesta.

    In ragione dei suddetti elementi, valutati nel loro complesso, si ritiene di determinare l’ammontare della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 83, par. 5, lett. a) del Regolamento (UE) 2016/679, nella misura di euro 20.000 (ventimila) per la violazione dell’art. 5 del Regolamento (UE) 2016/679 quale sanzione amministrativa pecuniaria ritenuta, ai sensi dell’art. 83, par. 1, del Regolamento stesso, effettiva, proporzionata e dissuasiva.

    Si ritiene, altresì, che debba applicarsi la sanzione accessoria della pubblicazione sul sito del Garante del presente provvedimento, prevista dall’art. 166, comma 7, del Codice in materia di protezione dei dati personali e art. 16 del Regolamento del Garante n. 1/2019, in relazione alla categoria particolare di dati personali trattati e al numero potenziale di interessati.

    Il parere originava da una segnalazione indirizzata al Garante: in uno studio dentistico e odontoiatrico, all’atto della prima accettazione dei pazienti, veniva distribuito un questionario in cui si chiedeva a questi di evidenziare il proprio stato di salute e, in particolare, l’eventuale infezione da HIV.

    La normale e corretta sequenza operativa prevederebbe che, dopo l’acquisizione del consenso al trattamento dei dati personali, gli esercenti le professioni sanitarie debbano raccogliere tutte le informazioni (sanitarie) necessarie ad assicurare al paziente una corretta assistenza medica.

    Ciò in quanto “l’esigenza di raccogliere informazioni in merito alla eventuale infezione da HIV in fase di accettazione del paziente non può, nemmeno, ricondursi alla necessità di attivare specifiche misure di protezione per il personale sanitario, in quanto la normativa di settore prevede che, stante l’impossibilità di avere certezza sullo stato di sieropositività del paziente, le misure di protezione devono essere adottate nei confronti di ogni singolo assistito”.

    Le norme di sicurezza igienico-sanitarie devono essere sempre garantite, per qualunque intervento, a prescindere dallo stato sierologico dei pazienti.

    Per “informazioni necessarie” si intendono quelle che consentono all’operatore di proteggere il paziente, ad esempio da interazioni farmacologiche o da infezioni.

    “Gli esercenti le professioni sanitarie, infatti, – previo consenso informato del paziente – possono raccogliere l’informazione relativa all’eventuale presenza di un infezione da HIV solo qualora tale dato anamnestico sia ritenuto dagli stessi necessario in funzione del tipo di intervento sanitario o di piano terapeutico da eseguire sull’interessato; resta fermo che quest’ultimo rimane libero di decidere in modo consapevole (e quindi informato) e responsabile di non comunicare al medico alcuni eventi sanitari che lo riguardano”3.

    In altre parole, non vi è motivo (e non ci è consentito), raccogliere genericamente le informazioni sull’infezione da HIV all’atto dell’accettazione del paziente, tantomeno in seguito, laddove lo stesso dovesse essere sottoposto a generiche sedute di igiene, a terapie conservative o a trattamenti protesici.

    “La raccolta di informazioni relative all’eventuale stato di sieropositività di ogni singolo paziente da parte degli esercenti le professioni sanitarie deve avvenire, pertanto, in conformità al quadro normativo sopra delineato ed ai princìpi di pertinenza e non eccedenza dei dati rispetto alle finalità del trattamento riconducibili alle specifiche attività di cura dell’interessato”.

    Vi è infine un ultimo doveroso monito del Garante: “Fermo restando, pertanto, che il medico è tenuto a raccogliere un’anamnesi dettagliata del paziente ed a illustrare a quest’ultimo l’importanza di tale raccolta di dati personali, l’interessato è comunque libero di scegliere, in modo informato – e quindi consapevole – di non comunicare al medico alcune informazioni sanitarie che lo riguardano, ivi compresa la sua eventuale sieropositività, senza per ciò subire alcun pregiudizio sulla possibilità di usufruire delle prestazioni sanitarie richieste”.

    Un sentito ringraziamento va a Giusi Giupponi, Presidente LILA, per il prezioso contributo dato alla stesura del presente articolo.

    TAKE HOME MESSAGE

    Il Garante, ai sensi dell’art. 154, comma 1, lett. c) del Codice in materia di protezione dei dati personali, prescrive agli esercenti le professioni sanitarie di non raccogliere l’informazione circa l’eventuale stato di sieropositività in fase di accettazione di ogni paziente che si rivolge a questi per la prima volta, e a prescindere dal tipo di intervento o piano terapeutico da eseguire, fermo restando che tale dato anamnestico può essere legittimamente raccolto, previo consenso informato dell’interessato, da parte del medico curante nell’ambito del processo di cura, in relazione a specifici interventi clinici ove ciò sia ritenuto necessario.

    Note

    1. https://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2903_allegato.pdf
    2. Art. 32 Doveri del medico nei confronti dei soggetti fragili. Codice di Deontologia Medica 2014
    3. Prescrizioni concernenti la raccolta d’informazioni sullo stato di sieropositività dei pazienti da parte degli esercenti le professioni sanitarie – 12 novembre 2009 (G.U. n. 289 del 12 dicembre 2009)