La sig.ra XX si rivolse al dott. XY per riabilitare la propria bocca, ormai considerabile in condizioni a dir poco “precarie”.
Le venne proposta una protesizzazione delle due arcate, previa estrazione degli elementi naturali rimasti, con tecnica all-on-four (quattro impianti all’arcata superiore e quattro all’arcata inferiore + protesi con denti in ceramica) per un totale di € 7.000,00.
Nei primi due mesi successivi all’intervento andarono perduti 2 impianti inseriti nell’arcata superiore per cui il dott. XY decise di rimuovere gli impianti rimanenti all’arcata superiore e sostituirli con altri quattro. Venne altresì modificata la protesi avvitata consegnata ad aprile 2019, che venne trasformata in protesi rimovibile.
Una settimana dopo venne modificata la situazione dell’arcata inferiore con l’inserimento di nuovi impianti e un riadattamento della protesi inferiore avvitata.
Stante il perdurare di dolori diffusi alle due arcate la paziente si rivolse al pronto soccorso, dal quale venne indirizzata al dentista curante.
Circa sei mesi dopo il primo intervento il dott. XY decise di rimuovere gli impianti e di rifare le protesi. Tuttavia, anche a seguito di tali nuovi interventi, la situazione non migliorò e la sig.ra XX chiese la restituzione di quanto pagato senza ottenere soddisfazione. Decise quindi di rivolgersi a un legale per far valere i propri diritti.

Il legale mandò una PEC al dott. XY richiedendo la restituzione dell’onorario percepito e il riconoscimento del danno lamentato, ma non ricevette alcuna risposta. Procedette quindi a depositare un ricorso ex art. 696bis c.p.c. ma anche in questo caso il dott. XY restò contumace. Si procedette comunque alle operazioni peritali, durante le quali uno dei CCTTUU incaricati, che conosceva il recapito telefonico del contumace, comunicò informalmente di quanto stava accadendo il dott. XY, che rimase sorpreso dai fatti. Il caso venne sottoposto al giudice, e il medico, a seguito di rimessioni in termini, potè entrare nel procedimento che ebbe successivamente il proprio corretto epilogo. Il dott. XY aveva sì una casella di posta elettronica certificata (PEC), ma non aveva l’abitudine di aprirla.
Parto da questa storia di vita, sicuramente (purtroppo) non unica nel suo genere, per ricordare insieme al lettore che esiste un obbligo non solo di possedere un domicilio digitale, ma anche la necessità di consultarlo con frequenza.
La posta elettronica certificata (PEC) è diventata un obbligo per tutte le imprese dopo la conversione del D. L. 179/2012 nella legge 221/2012 che si affianca alle indicazioni contenute nella legge 2/2009.
Ma quante sono in Italia le PEC? In base ai dati ufficiali di Agid, nel 2023 nel nostro Paese risultavano attive oltre 15 milioni di caselle PEC e i messaggi scambiati nell’anno sono stati superiori a 2,5 miliardi (vedi figura 1).

Questi dati sono il frutto della volontà del legislatore di “favorire la presentazione di istanze, dichiarazioni e dati, nonché lo scambio di informazioni e documenti tra la pubblica amministrazione e le imprese e i professionisti in modalità telematica” istituendo un “pubblico elenco denominato Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (INI-PEC) delle imprese e dei professionisti, presso il ministero per lo Sviluppo economico”1. L’Indice nazionale venne realizzato a partire dagli elenchi di indirizzi PEC costituiti presso il Registro delle imprese e gli ordini o collegi professionali, in attuazione di quanto previsto dall’articolo 16 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2.
Chi furono i destinatari di tale iniziativa? I professionisti, per i quali a partire dal 2009 è scattato l’obbligo di comunicare al proprio Ordine professionale la propria PEC, le Società e le ditte individuali che devono dichiararla al Registro delle imprese (vedi figura 2).

In realtà, come previsto dal D.L. 16 luglio 2020, n. 76, oggi non è più corretto parlare di semplicemente di PEC, quanto di domicilio digitale.
Per quanto riguarda i professionisti, la mancata comunicazione del proprio domicilio digitale all’albo comporta diffida ad adempiere, entro trenta giorni, da parte del collegio o ordine di appartenenza. In caso di mancata ottemperanza alla diffida, il collegio o ordine di appartenenza saranno tenuti a procedere alla sospensione del professionista dal relativo albo o elenco fino alla comunicazione dello stesso domicilio.
Per gli stessi ordini professionali, “il rifiuto reiterato di comunicare alle pubbliche amministrazioni i dati previsti dal medesimo comma, ovvero la reiterata inadempienza dell’obbligo di comunicare all’indice l’elenco dei domicili digitali e il loro aggiornamento costituiscono motivo di scioglimento e di commissariamento del collegio o dell’ordine inadempiente ad opera del ministero vigilante sui medesimi”.

Analogamente, “dal 1° ottobre 2020 tutte le imprese, già costituite in forma societaria, comunicano al Registro delle imprese il proprio domicilio digitale”. Anche in questo caso, i soggetti “che non hanno indicato il proprio domicilio digitale, o il cui domicilio digitale è stato cancellato dall’ufficio del Registro delle imprese ai sensi del comma 6-ter, sono sottoposti alla sanzione prevista dall’articolo 2630 del codice civile (sanzione amministrativa pecuniaria da € 103,00 a € 1032,00), in misura raddoppiata. L’ufficio del Registro delle imprese, contestualmente all’irrogazione della sanzione, assegna d’ufficio un nuovo e diverso domicilio digitale per il ricevimento di comunicazioni e notifiche, attestato presso il cassetto digitale dell’imprenditore, erogato dal gestore del sistema informativo nazionale delle Camere di commercio”.
Le comunicazioni digitali rappresentano una vera e propria rivoluzione, perché – visto che hanno valore legale di notifica – possono comportare notevoli risparmi di tempo e di risorse, che in questo momento vengono impiegati in attività manuali (ad esempio la gestione delle notifiche cartacee, l’accesso fisico all’abitazione delle persone, l’invio con raccomandata A/R, la mancata notifica per domicilio sconosciuto o irreperibilità, eccetera).
“La posta elettronica certificata (PEC) ha lo stesso valore legale di una raccomandata tradizionale con avviso di ricevimento. Per certificare l’invio e la ricezione di un messaggio di PEC, il gestore di posta invia al mittente una ricevuta che costituisce prova legale dell’avvenuta spedizione del messaggio e dell’eventuale documentazione allegata. Allo stesso modo, il gestore invia al mittente la ricevuta di avvenuta (o mancata) consegna del messaggio, con precisa indicazione temporale”2.
Appurato che, sia come professionisti che come società, gli odontoiatri sono obbligati a possedere un domicilio digitale, vi è anche l’obbligo di “frequentazione” del medesimo?
Se vogliamo guardarla da un altro punto di vista – quello del notificatore -, l’invio di una mail di posta elettronica certificata nei confronti di un’altra PEC è sempre efficace? Basta che venga inviata e che il sistema notifichi che è stata accettata oppure occorre che vi sia anche la notifica che è stata consegnata?
Per rispondere a questa domanda facciamo un esempio: a seguito di un ricorso ex art. 696bis c.p.c., l’avvocato del ricorrente fa la notifica al domicilio digitale dell’odontoiatra chiamato in causa dalla propria cliente, il quale, ricevuta la notifica (ricevuta di consegna del messaggio) procederà, tramite un proprio legale, a costituirsi in giudizio. Nel caso in cui, invece, non si abbia la notifica di avvenuta consegna, piuttosto che di mancata consegna perché la casella risulta piena, secondo l’orientamento della Corte di Cassazione Sez. VI, Ord. 11 febbraio 2020, n. 3164: “la notificazione di un atto eseguita ad un soggetto, obbligato per legge a munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, si ha per perfezionata con la ricevuta con cui l’operatore attesta di avere rinvenuto la cosiddetta casella PEC del destinatario “piena”, da considerarsi equiparata alla ricevuta di avvenuta consegna, in quanto il mancato inserimento nella casella di posta per saturazione della capienza rappresenta un evento imputabile al destinatario, per l’inadeguata gestione dello spazio per l’archiviazione e la ricezione di nuovi messaggi”. Di fatto, la responsabilità per la mancata notifica ricadrebbe sul professionista/società che non ha “monitorato” lo stato della propria PEC.
La Cassazione, tuttavia, con ordinanza n. 2193 del 24 gennaio 2023, ha messo il punto sulla questione del perfezionamento della notifica a mezzo PEC, nel caso in cui la casella digitale del destinatario sia piena, ponendo un onere di attenzione ulteriore sul notificante, il quale, in caso di casella del destinatario piena, dovrà procedere a notificare nuovamente l’atto al domicilio (fisico) eletto. Nel nostro caso, presso la residenza del professionista, piuttosto che lo studio in cui esercita, o al domicilio fiscale della società.
TAKE HOME MESSAGE
I professionisti, le società e le ditte individuali devono dotarsi di domicilio digitale che devono dichiarare, rispettivamente, al proprio Ordine professionale o al Registro delle imprese. E non frequentarlo potrebbe generare guai…
Come fare per trovare un domicilio digitale? Basta cliccare QUI, andare alla voce “cerca un domicilio digitale” e inserire il codice fiscale del professionista che si desidera trovare.
NOTE
- Decreto-Legge 18 ottobre 2012, n. 179 convertito con modificazioni dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221.
- AGID Posta elettronica certificata – Aggiornamento del 12.03.2024