INTRODUZIONE
Negli ultimi decenni gli impianti dentali hanno radicalmente modificato l’approccio decisionale nelle riabilitazioni orali diventando una terapia consolidata ed indispensabile al fine di sostituire i denti mancanti in diverse situazioni cliniche.
La predicibilità di queste riabilitazioni ha fatto sì che l’implatologia sia considerata la prima scelta per il trattamento delle edentulie parziali e totali, nonostante siano note ed ampiamente documentate le complicanze che nel corso del tempo possono portare al fallimento dell’osteointegrazione.
Quando si considera l’ampiezza del mercato degli impianti dentali, la perimplantite è potenzialmente un problema sanitario globale significativo.
Si stima che nel 2012 in Italia siano stati effettuati circa 900.000 interventi di chirurgia implantare per un totale di 1.4 milioni di impianti. Questo trend è leggermente in calo, tuttavia nel 2018 il numero di impianti posizionati supera il milione di unità.
L’osservazione dei dati di sopravvivenza ed incidenza delle complicanze accende un campanello d’allarme sul destino di una cospicua popolazione di queste riabilitazioni; l’11% dei pazienti trattati con almeno un impianto dentale ha mostrato complicanze a lungo termine di cui l’82% era principalmente di natura biologica, dunque caratterizzata da una infiammazione dei tessuti perimplantari.
Mucosite e perimplantite
In analogia alla gengivite e alla parodontite che colpiscono il parodonto dei denti naturali, l’infiammazione e la distruzione dei tessuti molli e duri che circondano gli impianti dentali sono definite mucosite e perimplantite.
La mucosite è la forma iniziale e più superficiale ed è descritta come “un processo infiammatorio che si sviluppa con edema e sanguinamento al sondaggio a 30 secondi indotto dal biofilm dentale con assenza di perdita dell’osso dopo il rimodellamento osseo”.
L’agente eziologico è quindi batterico e recenti indagini epidemiologiche hanno osservato che circa il 40% degli impianti sono affetti da questa condizione infiammatoria.
Se non trattata, il decorso di questo stato infiammatorio può evolvere verso quadri clinici più severi come la perimplantite, condizione clinica caratterizzata da infiammazione della mucosa perimplantare, sanguinamento al sondaggio e perdita di osso perimplantare (fig. 1, 2).
Si tratta di una condizione clinica presente nel 15-30% dei casi che può configurarsi in stadi di gravità progressiva e condurre alla perdita dell’osteointegrazione.
Trattamenti
Trattandosi di condizioni cliniche instaurate a causa di una infezione, il trattamento deve mirare in entrambi i casi alla rimozione a 360 gradi della placca batterica e alla detossificazione della superficie implantare esposta a contaminazione.
Il trattamento delle infezioni perimplantari comprende approcci conservativi (non chirurgici) e chirurgici. A seconda della gravità della malattia perimplantare (mucosite, perimplantite moderata o grave) può essere sufficiente una sola terapia non chirurgica oppure può essere necessario un approccio graduale con una terapia non chirurgica seguita da un trattamento chirurgico.
In presenza di mucosite perimplantare, i metodi non chirurgici sono appropriati e sufficienti per la detossificazione. Questi includono la pulizia meccanica dell’impianto con curette in titanio o plastica, ultrasuoni o lucidatura con getto di polveri. Inoltre, i farmaci antisettici locali (clorexideluconato, perossido di idrogeno, percarbonato di sodio, iodio-povidone) possono supportare la terapia antimicrobica.
La maggior parte delle strategie pubblicate per la terapia della perimplantite si basano principalmente sui trattamenti utilizzati per i denti con parodontite. Il motivo è che il modo di colonizzazione batterica delle superfici dentali e dell’impianto segue principi simili ed è comunemente accettato che il biofilm microbico svolga un ruolo analogo nello sviluppo dell’infiammazione perimplantare. Per il trattamento della perimplantite possono essere applicate sia terapie conservative (non chirurgiche) che chirurgiche.
In tal modo, i trattamenti chirurgici possono essere eseguiti utilizzando approcci resettivi o rigenerativi.
Oltre alla detossificazione mediante trattamento manuale (ad esempio con curette, sistemi ad ultrasuoni ed air-polishing) e farmaci ad uso topico, tecniche innovative supportate da laser sono state recentemente descritte come efficaci e sicure opzioni di terapia conservativa.
Nello specifico, l’uso di laser è considerato efficace e adatto a condizioni infiammatorie e infettive a causa del suo effetto ablativo o di vaporizzazione, distruzione microbica ed effetti biologici, come la fotobiomodulazione. Di conseguenza, i batteri vengono evaporati, distrutti o denaturati dall’irradiazione laser, con conseguente loro devitalizzazione o inattivazione.
Nel contesto dei laser a disposizione dell’odontoiatra ed in base alle condizioni in cui si opera durante il trattamento di una patologia perimplantare, la scelta deve ricadere su uno strumento in grado di irradiare la sua luce in spazi profondi e stretti; l’effetto dovrà non solo limitarsi esclusivamente alla decontaminazione, ma dovrà sostenere l’azione di rimozione meccanica di placca e tartaro operata dagli strumenti meccanici, operando la rimozione dell’epitelio malato e la stabilizzazione di un coagulo di fibrina stabile.
Le azioni di decontaminazione, vaporizzazione e l’ablazione dovranno essere rispettosa dei tessuti perimplantari e delle caratteristiche superficiali del titanio irradiato. La scelta quindi della lunghezza d’onda, della potenza e della velocità dell’impulso si orienterà verso uno strumento che non induca necrosi tessutale e fenomeni di meeting implantare.
Queste ragioni fanno quindi ricadere la scelta su un laser che operi la sua azione mediante impulsi molto brevi, nell’ordine di grandezza dei nanosecondi, per contenere fenomeni di rialzo termico e sia dotato di una fibra laser molto flessibile e diametro ridotto al fine di agevolarne la penetrazione nei tessuti e favorire l’applicazione nelle zone difficilmente accessibili a punte più rigide o di dimensioni maggiori.
La lunghezza d’onda
Il laser in odontoiatria offre diverse opzioni terapeutiche, ed è utilizzato in un ampio ventaglio di applicazioni.
Ogni laser emette luce di una specifica lunghezza d’onda, capace di agire selettivamente su specifiche componenti dei tessuti, tra gli altri acqua, pigmenti (emoglobina, melanina) e idrossiapatite.
Il trasferimento di energia a questi bersagli, opportunamente modulata, porta ad avere sostanzialmente effetti ablativi, decontaminanti, biostimolanti.
Spesso la comunicazione ed il marketing amplificano le potenzialità correlate all’uso di una singola lunghezza d’onda, spingendo ad applicazioni che non rappresentano certamente il gold standard e generando confusione nell’utilizzatore.
Volendo coprire a 360 gradi le possibili applicazioni in odontoiatria si dovrebbe fare uso di almeno 4 lunghezze d’onda diverse, sfruttando al meglio la selettività offerta da ognuna di esse.
La letteratura scientifica internazione accreditata ha ormai ampiamente dimostrato come la lunghezza d’onda emessa dal laser Nd:YAG (neodimio) sia la più efficace in tema di decontaminazione profonda , e la recente innovazione in tema di gestione di emissione della luce laser, emissione super pulsata, offre la possibilità di essere efficaci e decontaminare in assoluta sicurezza.
Le modalità standard di emissione della luce laser da parte delle apparecchiature disponibili per l’odontoiatra sono essenzialmente le seguenti: continua, interrotta, pulsata e, recentemente, super pulsata (fig. 3).
L’emissione super pulsata
Alcuni laser, tipicamente i laser a diodi, tra i quali quelli che emettono luce di lunghezza d’onda appartenente al vicino infrarosso, 808 e 980 nanometri, emettono in modalità continua, senza interruzione, oppure possono emettere in modalità interrotta: in pratica un frazionamento ripetitivo della modalità continua. Non possono emettere in modalità pulsata.
Quest’ultima è di pertinenza di laser allo stato solido, quale è il Nd:YAG, in cui l’energia viene emessa sottoforma di impulsi aventi durata nell’ordine dei microsecondi. Concentrare una certa quantità di energia, anche minima, in un tempo così breve consente di raggiungere picchi estremamente elevati (potenza di picco) nell’ordine di alcuni kilowatt (contro le poche decine di watt dei laser a diodi più evoluti).
La modalità super pulsata, da poco disponibile con il laser a neodimio nano YAG, consente di raggiungere picchi di potenza ancora più elevati, con impulsi della durata di pochi nano secondi (miliardesimi di secondo).
La possibilità di avere impulsi così brevi fa sì che l’energia assorbita dal tessuto bersaglio si converta in effetto a livello estremamente superficiale, senza dispersone di calore verso i tessuti profondi, senza danno termico collaterale. Non solo. Un’ulteriore sicurezza è offerta dal fatto che se gli impulsi sono nell’ordine dei nanosecondi, l’intervallo tra di essi è di diversi microsecondi, evitando in ogni caso l’accumulo di calore indesiderato: caratteristiche ad oggi uniche, sicuramente inarrivabili anche per i laser a diodi più evoluti.
Paradossalmente i laser a diodi, spesso considerati “entry level” per il basso costo dei modelli base, sono i più complessi da gestire e la loro efficacia e sicurezza dipendono in modo decisivo dalla manualità ed esperienza dell’operatore (fig. 4, 5).
I sistemi laser a diodi 808, 980 e 1064 (Nd:YAG pulsato), pur avendo affinità biologiche nello spettro di assorbimento delle lunghezze d’onda, risultano quindi totalmente differenti in termini di:
- sorgente laser
- modalità di emissione
- efficacia terapeutica
- sicurezza di trattamento
Analisi efficacia e rischio termico
Già nel passato si è tentato diverse volte di approcciare la malattia perimplantare attraverso l’ausilio del laser. Si sono sperimentate diverse lunghezze d’onda, ma spesso per la difficoltà di uso di alcune e per gli effetti indesiderati di altre non si era trovata la metodica adatta.
Abbiamo eseguito test su diversi laser con diverse lunghezze d’onda e con variate modalità di emissione, con l’obiettivo di verificare gli aumenti di temperatura e le alterazioni morfologiche sulla superficie degli impianti.
L’aumento di temperatura più contenuto è stato rilevato con il nanoYAG, inferiore di ben il 75% (dato minimo) rispetto a tutti gli altri laser in commercio.
Inoltre grazie alla emissione super pulsata (4 nanosecondi), anche il titanio della superficie implantare non viene danneggiato o alterato.
Per verificare tale dato abbiamo esposto degli impianti in titanio grado 4 ed in titanio grado 5 con valori di 1 watt in modalità interrotta con duty cycle al 50% per i laser a diodi, e con 1 watt con il laser nanoYAG oggetto dell’investigazione in emissione super pulsata a 20.000 hz, con 4 nanosecondi di impulso, in entrambi i casi per un minuto, utilizzando una fibra ottica da 320 micron posta a contatto con la superficie dell’impianto. La temperatura è stata rilevata con una termocoppia posta sull’impianto.
L’accumulo termico sugli impianti trattati con laser a diodi ha portato a 19 gradi di incremento termico della superficie dell’impianto e di 4 gradi sull’impianto trattato con il laser nanoYAG.
In una condizione così estrema, senza liquidi biologici o raffreddamento esterno in grado di dissipare ulteriormente il calore, l’incremento di temperatura è estremamente contenuto; è plausibile pensare che in una situazione operativa che è sotto ulteriore investigazione gli incrementi termici siano vicini allo zero.
Inoltre non si sono evidenziate alcune alterazioni morfologiche sulla superficie dell’impianto tratta con il laser nanoYAG a differenza di quanto prodotto da un comune laser a diodi.
Attraverso la presentazione di un caso clinico esporremo la metodica di gestione di una perimplantite lieve attraverso l’applicazione di questo protocollo.
Caso clinico
Un paziente di 68 anni maschio presenta un impianto in sede 4.1 con sanguinamento al sondaggio, placca ed edema dei tessuti perimplantari.
Sono in oltre presenti accumuli di tartaro sui denti adiacenti (fig. 6).
L’immagine radiografica mostra la demineralizzazione della corticale ossea ed una lieve perdita di volume osseo a livello della prima spira mesiale e distale conducendo a diagnosi di perimplantite lieve (fig. 7).
Step 1
Viene eseguita anestesia superficiale con anestetico mepivcaina senza adrenalina.
Step 2
Mediante l’uso di punte in PEEK montate su manipolo ultrasonico si procede alla rimozione degli accumuli di placca e tartaro trattando ogni sito implantare per 5 minuti mentre per le superfici radicolari dei denti adiacenti si opera mediante l’uso di punte per strumentazione ultrasonica ultrasottili.
Step 3
Si procede alla detossificazione profonda del sito impiantare utilizzando il perio-flow di eritritolo ed inserto in materiale elastomero dicato alla strumentazione subgengivale.
Le caratteristiche geometriche dell’inserto agevolano il suo inserimento all’interno dello spazio perimplantare. Il trattamento prevede applicazioni di 5 secondi durante i quali la punta viene mossa in senso apico- coronale.
Step 4
Viene quindi utilizzata la fibra del laser nanoYAG con uno specifico settaggio per 60 secondi (fig. 8).
Step 5
Si conclude il trattamento del sito implantare con 3 applicazioni topiche di gel di clorexidina al 0,1 % nell’arco di 10 minuti.
Al termine della seduta il paziente viene congedato dopo aver ricevuto nuovo rinforzo motivazionale ed istruzioni all’igiene.
Dopo 6 mesi la rivalutazione dei tessuti (fig. 9) mostra una remissione completa dello stato di edema, assenza di sanguinamento e il miglioramento del controllo di placca da parte del paziente. Anche l’immagine radiografica illustra un quadro di miglioramento (fig. 10) dei tessuti ossei evidenziando la ricostituzione della matrice mineralizzata in posizione distale all’impianto in zona 4.1 e ad una progressiva remineralizzazione mesiale.
Conclusioni
Il largo uso di impianti nelle riabilitazioni protesiche orali ha messo in luce nel tempo alcuni aspetti critici legati alla colonizzazione batterica delle loro superfici. Gli attuali protocolli diagnostici e terapeutici ricalcano la conoscenza e l’esperienza maturata nel campo della parodontologia mostrando alcune differenze importanti in termini di successo dei trattamenti stessi.
Queste complicanze si distinguono, in base alla loro gravità, in peri-mucosite e perimplantite; le prime, quando trattate, mostrano nella quasi totalità dei casi la completa restituzione della salute perimplantare; nelle condizioni più gravi soltanto il 26% dei casi riesce a raggiungere questo risultato, mentre quasi il doppio dei casi va in contro alla perdita di osteointegrazione e alla conseguente rimozione dell’impianto.
La prognosi delle complicanze evidenzia come primaria necessità quella di monitorare costantemente lo stato di salute degli impianti per intercettare precocemente l’insorgenza di una infiammazione batterica attorno agli impianti e quindi attuare protocolli predicibili che conducano con alta probabilità alla guarigione completa.
L’evidenza applicata alla gestione di questi protocolli deriva in gran parte dall’esperienza maturata nella gestione della gengivite e della parodontite, tuttavia le condizioni ambientali in cui si attua la decontaminazione obbligano il clinico ad un maggior livello d’attenzione nei confronti delle superfici implantari.
L’uso di strumenti dedicati, rispettosi delle caratteristiche superficiali del titanio, differenziano il protocollo di gestione della perimplantite da quello della parodontite.
In questo contesto diventa strategica l’applicazione di un sistema che consenta di interagire con i microorganismi patogeni presenti all’interno della tasca in maniera aspecifica, diffusa e conservativa per le strutture implantari.
Il laser, abbinato a protocolli consolidati di detossificazione, apre la strada verso risultati maggiormente predicibili in tempi ridotti.
La scelta del laser diventa tuttavia la chiave di successo per la corretta implementazione negli attuali protocolli terapeutici.
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