Il carico immediato in implantologia: qualche considerazione storica

carico immediato reperto storico
Due pagine de “Le Chirurgien Dentiste, ou traitè des dents” di Pierre Fauchard (1678-1761), considerato il fondatore della moderna concezione odontostomatologica.

Sono note descrizioni di reperti dell’epoca precolombiana che presentavano pietre infisse nei denti o addirittura atte a sostituire elementi mancanti.

Il primo reperto a noi giunto di terapia implantare, coronata da successo, è il famoso frammento mandibolare con impiantate tre valve di conchiglia.

Nel museo di Archeologia ed Etnologia dell’Università di Harward (Massachussets) era conservato un frammento di mandibola di un individuo vissuto fra il VII e l’VIII secolo dopo Cristo. In essa sono infissi tre pezzi cuneiformi di conchiglia che sostituiscono tre incisivi inferiori.

Il frammento fu rinvenuto nel 1931 dal dottor Wilson Popenoe e da sua moglie Doroty nel corso di ricerche sulla civiltà Maya nella Playa de los Muertos, sulla riva destra del fiume Ulloa in Honduras, dove aveva precedentemente eseguito altri importanti scavi anche l’archeologo Gordon.

Nello studiare questo inedito reperto, i membri della spedizione formularono in prima istanza l’ipotesi che gli elementi inseriti potessero essere un trattamento estetico post-mortem, forse espressione di qualche complicato rituale funebre o pratica religiosa.

Il reperto fu consegnato due anni dopo al museo dell’Università di Harward. Catalogato col n. 20/54, fu ritenuto testimonianza di un rituale funebre della civiltà Maya, perché i tre cunei, sagomati come denti, sembravano inseriti post-mortem. Dopo qualche anno il reperto scomparve.

Non se ne saprebbe più nulla se l’italiano Amedeo Bobbio, nato a Genova e residente in Brasile, dove è stato docente d’implantologia all’Università di Santos, non l’avesse “riscoperto”, fornendo le prove scientifiche che i tre pezzi di conchiglia furono inseriti in vita e sono la più antica testimonianza di impianti alloplastici eseguiti sull’uomo.

Essi furono certamente infissi in alveoli cruentati, dato che Bobbio dimostrò radiograficamente la reazione ossea che li incluse in vita. Il tempo necessario a preparare i tre impianti non poteva essere così ridotto da impedire la guarigione degli alveoli a meno che non esistessero inserti già pronti.

L’anestesia non avrebbe dovuto essere un problema, per le accertate nozioni dei popoli del centro America sulle proprietà allucinogene ed anestetizzanti delle foglie di coca e di alcuni funghi, così la trapanazione degli alveoli con i trapani manuali ad archetto, probabilmente utilizzando le medesime “frese” con cui preparavano gli intarsi estetici sulla parete anteriore dei denti frontali.

La domanda di come siano stati temporaneamente fissati quei primi (e fino ad ora unici) impianti alloplastici durante il periodo dell’osteogenesi riparativa dovrebbe trovare esauriente risposta nei solchi orizzontali, che dovrebbero testimoniare la sede ritentiva di una legatura temporanea.

È chiaramente molto probabile che il carico masticatorio venne effettuato subito dopo il posizionamento delle valve in questione.

A prescindere da tutti i tentativi di impianto e reimpianto dentario operati nei secoli da vari autori, va ricordata l’azione di Pierre Fauchard (1678-1761), considerato il fondatore della moderna concezione odontostomatologica. Nella sua opera fondamentale “Le Chirurgien Dentiste, ou traitè des dents” descrisse cinque casi di reimpianto ed uno di trapianto, cui fece seguire il carico immediato.

Pierre-Fauchard
Due pagine de “Le Chirurgien Dentiste, ou traitè des dents” di Pierre Fauchard (1678-1761),
considerato il fondatore della moderna concezione odontostomatologica.

È interessante una descrizione che lo stesso Fauchard fece, sostenendo che “un collega di provincia di cui non ricordava il nome” gli aveva suggerito una particolare tecnica di trapianto, la quale consisteva nel praticare alcune tacche nella radice del dente estratto in modo che dopo il trapianto potesse consolidarsi nell’alveolo nuovo “che stringendo da ogni lato la radice, avrebbe avuto la possibilità di introdurre le sue escrescenze nelle incavature”, cosicché “incrostato avrebbe potuto conservarsi per un tempo considerevole”.

Secondo l’autore, il paziente era in grado di poter masticare dopo pochissimo tempo dall’intervento.

Questi trapianti, da un individuo “donatore” ad un altro “ricevente” ebbero una grande diffusione a Parigi proprio nel secolo di Fauchard, durante il quale “i pazienti ricchi si compravano i denti dei poveri.”

Sotto la spinta d’innovazione scientifica iniziata dal Fauchard, altri autori si occuparono, in Europa, delle medesime problematiche.

Louis Fleury Lecluse (1754), inventore dell’omonima e tuttora utilissima leva per l’estrazione dei terzi molari inferiori, affermò di aver eseguito con ottimo risultato circa trecento reimpianti fra cui molti di denti pulpitici; dopo averli estratti e sanati, li riponeva nell’alveolo riempiti di piombo, sostenendo che solo dopo otto giorni essi riprendevano la loro normale funzionalità.

Nell’Ottocento negli Stati Uniti, antesignani della odontoiatria scientifica fecero numerosi tentativi ed esperimenti di impianti anche a carico immediato.

Intorno agli anni quaranta del secolo XIX, Harris e Hayden, fondatori della Scuola dentaria di Baltimora, tentarono impianti endoossei utilizzando denti in ferro di loro costruzione.
In particolare Harris collocò per la prima volta in un alveolo artificiale, un pilastro in platino rivestito di piombo fuso “in modo che assomigliasse alla radice di un dente naturale”. Harris aveva poi irruvidito il piombo perché offrisse ritenzione al tessuto “nuovo”, che si sarebbe dovuto riformare nella cavità artificiale. Su quell’impianto, dopo aver rimosso la legatura con cui lo aveva temporaneamente stabilizzato ai denti vicini, egli pose una corona in porcellana, che a suo dire ebbe successo.

Oggi sappiamo che il piombo non è biocompatibile. Intorno a quell’impianto si deve essere formato un tessuto ipertrofico, reattivo ed infiammato, che avrebbe potuto dare l’illusione di una temporanea stabilità.

Tre impianti analoghi (in alveoli creati chirurgicamente) furono pure eseguiti da Perry e da Edward (1888 e 1889) con analoghe testimonianze di successo.

Impianti leggermente diversi, ma sempre rivestiti di piombo, furono eseguiti anche da Edmunds a New York. Egli riferì di avere “infisso”, il 21 ottobre 1886, una “capsula” di platino rivestita di piombo, poi irruvidito con una fresa.

Quattro anni dopo, il 12 marzo 1889, rifece un intervento analogo nella clinica del primo distretto della Società di odontoiatria dello Stato di New York in occasione del congresso annuale della società. È interessante ricordare che nel medesimo anno aveva inserito un altro di questi impianti nell’alveolo artificiale della zona di un incisivo superiore perduto da tempo al collega Juan Josef Ross del Guatemala. Riferí che quattro giorni dopo il dott. V. H. Jakson, presente all’operazione, aveva accertato che il dente artificiale “… era ancora in sito ed aveva una rimarcabile fermezza, senza apparente irritazione dei tessuti circostanti”.
Nel medesimo anno in cui Edmunds aveva inserito la sua prima capsula di platino rivestita di piombo (1896), Lewis impiantò un dente in porcellana con un supporto interno d’oro, assicurando, anche lui, il buon esito dell’intervento.

Due anni più tardi il tedesco Znamensky descrisse alcuni suoi esperimenti con impianti endoossei “in porcellana intagliata”, in caucciù ed in guttaperca.
Nel marzo 1895 Bonwill riferì al primo distretto della Società dentale di New York di aver avuto successo con l’impianto in alveoli artificiali sia di tubi traforati che di perni pieni in oro e in iridio utilizzati “tanto per sostituire denti singoli che per ripristinare intere arcate dentali”.

Tuttavia, come notorio, è con l’inizio del XX secolo che vengono gettate le basi per il futuro sviluppo dell’implantologia scientifica.

Greenfield, fra il 1905 ed il 1913, ideò e perfezionò le cosiddette “radici a gabbia”, cioè un reticolo, a forma di cestello, da inserire in un alveolo artificiale in modo da far rimanere in esso una porzione di tessuto osseo; pur con i loro difetti anticipano una delle evoluzioni dell’implantoprotesi moderna.

Nel 1914 Casto e nel 1915 Kauffer eseguirono impianti “spiraliformi” in platino-iridio, dichiarandosi entrambi soddisfatti dei risultati.

Dopo la prima guerra mondiale il francese Leger-Dorez (1920) ideò un impianto “a radice estensibile”, simile nel concetto del suo forzato bloccaggio nell’osso a quello dei moderni chiodi a espansione. Con tale compressione meccanica egli riteneva di aver presentato un’importante innovazione, perché riteneva che i suoi impianti si sarebbero potuti stabilizzare immediatamente, ancor prima dell’incarceramento “biologico” per osteogenesi riparativa.

Il materiale dei quattro pezzi del suo impianto “tubolare ad estensione” erano l’oro a 24 K per il “corpo” ed il platino per la vite interna d’espansione.

Nel medesimo anno Weigele immise in alveoli artificiali dei tronchi di cono in avorio, protetti dalla mucosa che egli vi suturava al di sopra; l’avorio avrebbe dovuto stimolare le reazioni di un lento riassorbimento per osteoanchilosi, sufficiente a permettere il carico temporaneo di un dente a perno, che vi fosse stato inserito successivamente. Weigele riferì anni dopo di aver utilizzato i suoi coni in avorio come supporti endoossei di sovra-struttura per l’ancoraggio temporaneo delle dentiere totali inferiori.

Nel 1939 i fratelli Strock iniziarono a Boston la sperimentazione sull’uomo delle loro viti in vitallium, lega composta da cromo-cobalto-molibdeno, che avevano prima provato sui cani. Modestia, prudenza e signorilità caratterizzano le loro relazioni scientifiche in proposito, che pur essendo un’altra pietra miliare del progresso implantoprotesico rimasero pressoché sconosciute, e confuse con i numerosi insuccessi di altre metodiche.

Nel 1941 Irwing ripropose un impianto post-estrattivo “ad espansione rapida” che, come il precedente di Leger-Dorez, ebbe poca fortuna.

Nel 1946 Golberg e Gerschoff proposero impianti iuxtaossei in vitallium; essi poggiavano sulla cresta mandibolare ed erano trattenuti da viti; l’indicazione principale era relativa al mascellare inferiore.

Il 1947 è una data storica, che segna la nascita della moderna concezione implantologica: il 27 febbraio di quell’anno, in una conferenza tenuta all’A.M.D.I. (Associazione Medici Dentisti Italiana) di Milano, l’italiano Manlio Formiggini propose la vite cava spiraliforme in filo d’acciaio inossidabile o in tantalio, materiale di color bianco-argenteo così chiamato perché il suo utilizzo tecnico poteva costituire un vero e proprio supplizio. Il metodo venne chiamato dal suo ideatore “infibulazione diretta endoalveolare”, e segnò il definitivo passaggio alla fase degli impianti endoossei. Come noto, Formiggini purtroppo non venne immediatamente considerato, anzi fu nettamente avversato.

In seguito questo metodo fu accettato, tranne poche eccezioni, più all’estero che in Italia. Le modifiche che vi apportarono i suoi allievi hanno permesso a moltissimi pazienti di usufruire con successo dei benefici degli impianti derivati dalla sua geniale innovazione.
Alcune di queste modifiche, e fra tutte quella di Perron, si limitarono alla sostituzione dei due tratti verticali della spirale di Formiggini con un tratto metallico unico, più grosso e più rigido.

Perron fornì agli inizi della prima metà del secolo molte dimostrazioni radiografiche della validità della “spirale cava” di Formiggini, leggermente migliorata da lui, solo nella solidità del moncone protesico esterno.

L’unica differenza fra la spirale originale di Formiggini “dove i due trattini esterni dovevano essere uniti da una puntatrice elettrica o saldati” e la spirale di Perron consisteva nel fatto che in essa i due trattini erano sostituiti da un blocco unico, fuso.

Tale metodica, tuttavia, con il passare degli anni si affermò progressivamente ma definitivamente suscitando parecchi consensi in molti autori; vennero avviate ricerche sulle reazioni istologiche dei tessuti sottoposti a terapia implantare (Pini, Zepponi, Sordo, Gola, Roccia, Marziani et al.).

Fra il 1959 ed il 1961 Stefano Maria Tramonte, da considerarsi in assoluto il pioniere dell’implantologia a carico immediato, propose per primo la vite autofilettante in cromo-cobalto-molibdeno e in cromo-nichel-molibdeno ed in seguito utilizzò per primo al mondo il titanio quale materiale da implantoprotesi.

L’impianto di Tramonte venne proprio ideato per sopportare un carico immediato, con il rispetto biologico dei tessuti; suscitò però purtroppo molta ostilità da parte del mondo scientifico ed universitario odontoiatrico dell’epoca.

L’anno seguente furono presentate da Muratori le viti “cave”, che costituirono un perfezionamento di quelle del Formiggini nella forma, nella struttura e nella tecnica chirurgica. In Francia, a cavallo fra gli anni cinquanta e sessanta Chercheve modificò ulteriormente il disegno della vite di Formiggini, creando la spira a doppia elica; analogo presidio adottò sempre in Francia Jeanneret con piccole modifiche.

carico immediatoÈ opportuno ricordare che gli studi, le sperimentazioni cliniche, le applicazioni relative al carico immediato si svilupparono principalmente in Italia a partire dagli anni sessanta; è doveroso a tal proposito citare il fondamentale apporto fornito dal GISI (Gruppo Italiano Studi Implantari), fondato e diretto per lunghi anni da Giordano Muratori.

Fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta lo svedese Branemark presentò gli impianti cosìddetti “osteointegrati”. Secondo lo stesso Bränemark l’osteointegrazione “è la congruenza anatomica assoluta fra un osso vivente, rimodellante e sano ed un componente sintetico che trasferisce un carico all’osso stesso.” Tale metodica consta nel posizionamento di impianti in titanio a forma di vite a spire sottili (vite da metallo), dotati di una buona resistenza alle forze di torsione e che garantiscono buona elasticità meccanica.

Esse sono dotate di microscanalature con cui è possibile ottenere una integrazione con il tessuto osseo, che si modella attorno all’impianto. Il titanio è considerato il materiale più biocompatibile in quanto si presta ad essere usato in ambiente umido-organico; viene ricavato dal biossido di titanio. ●