La documentazione scientifica e la storia clinica dell’impianto singolo più longevo pubblicato nella letteratura internazionale: “50 anni di funzione”

The scientific documentation and the clinical history of the longest single implant published in the international literature: "50 years of function"

Scopo del lavoro:

Riproporre un caso di mono edentulismo di un incisivo centrale superiore risolto nel 1972 (intervento eseguito dal prof. Ugo Pasqualini) con una lama bifasica a moncone avvitabile, e attualmente in perfette condizioni a distanza di 50 anni (2022).

Materiali e metodi:

L’utilizzo della lama a due tempi permette la guarigione del tessuto osseo secondo il principio protettivo dell’osteogenesi riparativa in stato di quiete (osteointegrazione) senza alcuna recessione dei tessuti includenti. 

Conclusioni:

Questo caso rappresenta certamente il mono impianto per il quale, dall’analisi di tutta la letteratura scientifica internazionale sull’argomento, può essere documentato il più lungo tempo di permanenza al mondo nel cavo orale.

Introduzione

Gli impianti endossei fanno parte delle grandi realizzazioni della chirurgia ricostruttiva. Oggi nonostante l’implantologia sia molto diffusa spesso gli odontoiatri limitano le loro prestazioni a una sola metodica, forse perché non sufficientemente informati delle possibilità ricostruttive di altre tecniche studiate per rispettare l’integrità delle corticali ossee, ma che richiedono maggior abilità chirurgica.  Per questo motivo abbiamo voluto rianalizzare un caso di mono edentulismo di un incisivo centrale superiore di sinistra risolto nel 1972 con una lama a moncone avvitabile e attualmente in perfette condizioni dopo 50 anni di funzione. La lama a due tempi detta anche lama polimorfa di Pasqualini deriva dalle lame di Linkow a moncone fisso (1). Questa lama permette di ottenere la guarigione dei tessuti, perché si mantiene in stato di quiete nel periodo critico dell’osteointegrazione. Nel 1972 U. Pasqualini così scriveva: “Le migliori condizioni per la rapida guarigione delle ferite chirurgiche necessarie alle immissioni degli impianti, con ripristino di tessuto osseo intorno, al di sopra e attraverso i manufatti scheletrati, si verificano solo quando essi siano stati completamente sommersi, senza comunicazioni con l’esterno (2). Ciò non tanto per eliminare il pericolo di contaminazioni microbiche, ma per escludere il braccio di leva di monconi esterni sollecitati dalla peristalsi linguale, che trasmetterebbe alla parte interna pericolose sollecitazioni meccaniche, sottoponendole a continue mobilizzazioni che potrebbero compromettere l’evoluzione dell’osteogenesi includente”. Tali considerazioni derivavano da una precedente sperimentazione sugli animali eseguita in collaborazione con tre istituti universitari nazionali (Istituto di Clinica Odontoiatrica dell’Università di Modena, Istituto di Patologia e Clinica Speciale Chirurgica Veterinaria dell’Università di Milano e Istituto di Anatomia Patologica dell’Università di Modena). Tale pubblicazione monografica di oltre 100 pagine vinse il premio “Campione d’Italia” nel 1962 (3).

MATERIALI E METODI

L’impianto a lama (wedge form) nella realtà attuale 

Attualmente, tale tecnica ha suscitato rinnovato interesse grazie all’utilizzo di nuovi strumenti chirurgici, tra cui i martelletti pneumatici e meccanici e il bisturi piezoelettrico ad ultrasuoni, che semplifica la realizzazione dell’osteotomia (4). Gli impianti a lama (wedge concept, profilo cuneiforme) rientrano nelle innovazioni implantoprotesiche degli anni ’70 e, per un certo periodo, hanno rappresentato l’impianto endosseo di maggiore utilizzo. Leonard Linkow già nei primi anni Sessanta ne propugnava l’utilizzo, previa realizzazione di un’osteotomia longitudinale sulla cresta ossea edentula che necessitava di riabilitazione funzionale. In particolare, l’intervento prevedeva l’apertura di un lembo a tutto spessore tale da consentire la completa scheletrizzazione della parte superficiale della cresta sulla quale, poi, veniva praticato un solco sagittale, su misura, per alloggiare la parte sommersa della lama. Secondo le sue linee guida, i solchi vanno preparati con frese a fessura, montate su trapano ad alta velocità e sotto abbondante raffreddamento. Quindi, la lama viene appoggiata con la parte basale all’interno del solco e fatta affondare con uno apposito battente tramite un martelletto chirurgico (tecnica press-fit). In tal modo si ottiene l’approfondimento del dorso della lama stessa di circa 2 millimetri al di sotto del bordo osseo, sì da garantire la completa ricopertura da parte del tessuto osseo riparativo.  

Una volta allocata la lama all’interno dell’osso compatto, ciò che emerge da questo e dalla relativa mucosa di copertura è il moncone protesico (5). La presenza di tale moncone emergente esposto poteva essere causa di incompleta osteointegrazione per la continua azione di disturbo della lingua durante le fasi della deglutizione nel periodo dell’osteogenesi riparativa (6-7). Per ovviare a tale situazione, nel 1972 Ugo Pasqualini realizzò una modifica della lama e, in particolare, dell’emergente moncone protesico, facendolo realizzare di ridotta altezza e filettato. Ciò consentì di ovviare all’azione di disturbo della lingua. In merito alla preparazione del letto osseo, la metodica originale richiede una particolare abilità chirurgica. L’utilizzo del bisturi piezoelettrico ad ultrasuoni  ha semplificato la tecnica di preparazione del solco di inserimento aumentando, nel contempo, nelle zone particolarmente critiche, la sicurezza di non ledere i tessuti molli in profondità e, nello specifico, la componente vascolo-nervosa. Da quanto sopra è stato detto, si evidenzia, quindi, in linea generale, come l’impianto a lama, dato l’esiguo spessore, trova elettiva applicazione nelle creste edentule atrofiche e sfrutta gli ancoraggi dati dalle corticali contigue laterali che garantiscono la stabilità primaria, facilitando l’osteointegrazione. Dal punto di vista istologico, il comportamento del tessuto osseo includente la lama nelle sue varie morfologie è lo stesso di quello di tutti gli impianti endossei in titanio (8-11) (fig. 1).

Descrizione del caso

Il caso si riferisce a un monoimpianto a lama, sostitutivo di un edentulismo di un incisivo centrale superiore di sinistra, eseguito su un ragazzo sedicenne nel 1972 (fig. 2, 3).

Fig. 2 Perdita dell’incisivo centrale superiore di sinistra in un ragazzo di 16 anni (1972) e a destra la radiografia della lama inserita.
Fig. 3 Aspetto della mucosa guarita dopo 3 mesi intorno al moncone protettivo di teflon, il moncone protesico definitivo appena inserito, la corona singola in oro-porcellana e la radiografia del caso ultimato.

L’impianto fu lasciato senza moncone per tre mesi; tolto il moncone protettivo in teflon vi fu avvitato il moncone protesico e cementata la corona isolata in oro porcellana.

Fig. 4 Follow-up a 27 anni.

Il caso fu presentato al congresso nazionale dell’Associazione medici dentisti italiani tenutosi a Milano nel 1978 e successivamente pubblicato su riviste nazionali ed internazionali (12-13). I controlli fotografici e le radiografie eseguiti 50 anni più tardi riattestano la sua perfetta osteointegrazione, e dimostrano l’assenza di qualsiasi recessione dei tessuti includenti.  Anche nei precedenti follow-up eseguiti a 38 anni (2010) e a 47 anni (2019) non era stata riscontrata alcuna modifica del tessuto osseo perimplantare, inoltre in un ingrandimento radiografico si può evidenziare la formazione di una “lamina dura” intorno all’impianto stesso (fig. 4-6) (14,15).

Fig. 5 Il medesimo caso controllato 38 anni dopo. L’analisi radiografica dimostra l’assenza di qualsiasi recessione dei tessuti includenti (2010).
Fig. 6 Un ingrandimento radiografico ad evidenziare la formazione di una “lamina dura” (frecce) intorno all’impianto.

Interessanti le modifiche al volto del paziente, che all’atto dell’inserimento dell’impianto aveva 16 anni (il protocollo internazionale consiglia attualmente di non inserire impianti in pazienti maschi di età inferiore ai 18 anni, per il rischio di mal posizionamento in seguito alla maturazione scheletrica) e ora presenta i segni dell’età.

CONCLUSIONI

Questo caso rappresenta certamente il monoimpianto che, in tutta la letteratura scientifica mondiale sull’argomento, può documentare il più lungo tempo di permanenza nel cavo orale (1972-2022) (fig. 7).  

Alla durata di questo impianto, oltre che la protezione dell’osteointegrazione, ha contribuito il rispetto dell’armonia occlusale con il controllo dell’occlusione statica e dinamica. II metodico rispetto dei controlli periodici sia igienici sia, in particolar modo, occlusali sono stati di fondamentale importanza per il suo successo nel tempo (16-18).

Fig. 7 Controllo a 50 anni dall’intervento di implantoprotesi (1972-2022).

Ringraziamenti

Ai colleghi che hanno saputo resistere credendo nella scienza e nel benessere dei loro pazienti va il nostro più sentito ringraziamento. A loro si deve riconoscenza se queste tecniche affidabili esistono ancora (19-21).

Bibliografia:

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Il Gazzettino (Inserto Salute) “Denti, allarme sulla sicurezza degli impianti. Lunedì 19 ottobre 1998. 

Materials and methods:

The two-step blade implant, with very short threaded emerging posts to prevent external mechanical stress on the submerged structures, allows the healing of the bone tissue (osseointegration).

Aim of the work:

The authors return to a case of an upper central incisor resolved with one two-step blade implant in 1972 (the case was performed by prof. Ugo Pasqualini) and still perfectly functioning in the mouth of the patient after 50 years (2022).

Conclusion:

This is the longest documented case of implant dentistry published in the literature. Its duration over time fundamentally depends on the biocompatibility of the metal, the degree of hygiene and systematic gnathological control of the central occlusion and Bennnet’s dynamic movements.