La più antica testimonianza del probabile reimpianto di un dente risale a circa quattromila e cinquecento anni fa. Nel 1914, durante lo scavo di una “mastaba” dell’oasi di El Gizah, risalente al 2400 a.C., l’archeologo viennese Junker rinvenne due denti umani legati fra loro da un sottilissimo filo d’oro strettamente avvolto al di sotto del loro margine coronale. Poiché, come riferisce lo scopritore, i due denti furono rinvenuti accanto e non direttamente collegati alla mandibola di uno scheletro, non si può escludere che il reperto rappresenti solo il tentativo di legare un dente ad un cadavere da imbalsamare (1, 2).
Ma poiché il prof. Euler, Direttore della Clinica Odontoiatrica dell’Università di Breslavia cui fu consegnato il reperto, dichiarò che “i due denti (un dente del giudizio legato al secondo molare contiguo) appartenevano allo stesso individuo e che il secondo molare presentava il riassorbimento quasi completo della propria radice”, tipico dei denti reimpiantati in vita e rimasti in sede per un certo tempo, non è da escludere che si tratti della più antica documentazione di reimpianto in nostro possesso. Il reperto è attualmente conservato in Germania presso il Roemer Pelizaeus Museum di Hildescheim, vicino ad Hannover, ma il sovraintendente della Sezione Egiziana, la dottoressa Schmitz, ci ha comunicato che la legatura in oro è andata perduta (fig. 1).
Agli inizi del secolo scorso Chiavaro, Direttore del Ccorso di Clinica Odontoiatrica dell’Università di Roma, fornì interessanti indicazioni sulla tecnica del “reipiantamento dei denti”. Consigliò, dopo la cura canalare con guttaperca, “di arrotondare e ridurre di un paio di millimetri l’apice radicolare, impiantando il dente solo quando fosse cessata l’infiammazione acuta dell’alveolo leso”. Al momento del reimpianto raccomandò di ricruentare nuovamente l’alveolo e farlo sanguinare. Affermò di avere avuto casi di successo anche reimpiantando denti dopo un mese, purché mantenuti in soluzione di fenolo al 25%. Se l’alveolo si fosse ristretto durante l’attesa, consigliava di allargarlo con apposite frese “calibrate” che aveva fatto costruire appositamente. Riportò i reperti istologici dei suoi reimpianti sperimentali nei cani, in cui dimostrò che la radice del dente reimpiantato si univa alla parete del processo alveolare per anchilosi, dopo che i resti del legamento alveolo-dentario, rimasti attaccati al cemento, erano stati completamente riassorbiti (3).
Interessanti le sue osservazioni sulle prove cliniche dei denti reimpiantati e bloccati per il predetto processo di anchilosi: “Se si batte con un corpo metallico sui denti normali, si sente un suono profondo ed ottuso, come se si battesse su un tavolo di legno coperto da un tappeto, mentre, se si batte con lo stesso corpo su un dente reimpiantato, si ottiene un suono alto e timpanico come se si battesse sullo stesso tavolo privo del tappeto. Se si imprimono movimenti di “va e vieni” ad un dente normale, si sente che esso leggermente cede a causa della sua articolazione legamentosa alla cavità alveolare, ma se si imprime lo stesso movimento ad un dente reimpiantato, questo non si sente cedere”.
Dopo il discutibile, ma allora dominante allarme sull’infezione focale lanciato da Rosenow nel 1929, i reimpianti furono decisamente condannati (4).
Ripresero solo dopo che il perfezionamento delle terapie canalari arrestò la sconsiderata terapia delle estrazioni “profilattiche” di ogni dente con patologia apicale.
Nel 1939 Hoffer e Buy diedero relazione di una statistica di 31 casi di reimpianto eseguiti nella Clinica Odontoiatrica dell’Università di Milano, concludendo, sulla scorta dei controlli radiografici e dei favorevoli risultati clinici, che “agli effetti della prognosi del loro consolidamento e della loro durata andava assegnata la massima importanza all’integrità dell’alveolo ed alla scelta del materiale di otturazione dell’apice radicolare” (5).
Haupl, Direttore alla Clinica Odontoiatrica dell’Università di Innsbruck, alla fine degli anni ’40 del secolo scorso, era favorevole ai reimpianti da eseguire sia con i denti espiantati per trauma, sia con i denti impossibili da trattare con adeguata terapia canalare o apicectomia. Citava in proposito le esperienze sui cani di Hammer e di Axhausen (6, 7, 8).
Favorevole ai reimpianti fu anche Thoma. Nel suo “Trattato di Chirurgia Orale” vi dedicò un intero capitolo. In esso riferì che J. Faust aveva eseguito 270 reimpianti, con 252 risultati positivi, con periodi di permanenza da uno a dieci anni. Aggiunse che Krueger aveva seguito radiograficamente il lentissimo riassorbimento di un dente reimpiantato e rimasto in sede, solido e funzionante per 18 anni (9, 10 ,11).
Riferì anche che Ljungdahl e Martensson, che avevano reimpiantato quattro incisivi superiori due ore dopo il trauma mantenendoli bloccati per quattro mesi, avevano osservato che tre di essi, con gli apici non ancora formati, si erano perfettamente anchilosati entro gli alveoli ed avevano dato risposte positive alla prova elettrica di vitalità. La radice di un incisivo centrale, con l’apice completamente formato, era invece stata riassorbita e fu estratta. Secondo i due autori, nell’incisivo ad apice completo, i vasi pulpari, lacerati dall’espianto, non si erano potuti riformare. Il vasto lume dell’apertura apicale e la stasi ematica alla polpa degli altri tre denti avrebbero permesso la rivascolarizzazione del follicolo dentale, che vi era rimasto adeso. Conclusero che la differenza fra il reimpianto dei denti non ancora definitivamente formati e quello dei denti ormai sviluppati consisteva nel fatto che “i primi potevano riprendere la vitalità della polpa, mentre i secondi si sarebbero dovuti reinserire solo dopo un’accurata otturazione canalare”.
Ljungdahl e Martensson non chiarirono se la rivitalizzazione della polpa fosse da riferire solo alla ripresa della circolazione emolinfatica o anche al recupero della sensibilità nervosa, comunque indirettamente confermata dalle prove di vitalità, controllate dalle reazioni dolorose alla stimolazione elettrica (12).
Thoma si limita a riportare la comunicazione, senza aggiungervi commenti. Il fatto che egli poi documenti con una serie di radiografie il caso di un suo reimpianto di germe dentale tolto da una cavità cistica, che giunse alla completa formazione delle radici erompendo regolarmente, potrebbe essere tuttavia interpretato come una conferma indiretta del recupero della conducibilità nervosa, segnalata da Ljungdahl e Martensson.
Numerose sono le pubblicazioni in tema di reimpianto dei denti.
Il diametro dell’apice radicolare, il tempo e la permanenza in sede extraorale possono influenzare la rivascolarizzazione dell’elemento reimpiantato, come dimostrano recenti studi (13, 14, 15).
La durata dei reimpianti è in diretto rapporto:
- con lo stato di integrità dell’alveolo beante;
- con l’intervallo di tempo intercorso fra l’espianto ed il reimpianto e con la vitalità residua del dente;
- con l’abilità chirurgica dell’operatore;
- con l’efficacia del suo temporaneo bloccaggio ai denti vicini e della sua protezione dagli stress occlusali.
MATERIALI E METODI
Descrizione del caso
Una paziente di anni 15, caucasica, giungeva presso il nostro studio 4 ore dopo aver subito un incidente con il motorino (29 giugno 1992) che le aveva causato l’avulsione traumatica dell’elemento 21. L’esame obiettivo aveva evidenziato mobilità e dislocazione completa dello stesso, con presenza di lacerazione e sanguinamento della mucosa interessata al trauma (fig. 2).
Per prima cosa abbiamo controllato l’alveolo beante traumatizzato dall’espianto, ci siamo preoccupati di detergerlo dal coagulo, eliminando eventuali frammenti.
La paziente presentava viso, labbra e fornice edematosi e si trovava in uno stato di agitazione (fig. 3).
Abbiamo quindi deciso di premedicare con un sedativo (Diazepan per os 20 gocce), in quantità proporzionale all’età, al peso, alle sue condizioni generali ed ai valori pressori; dopo il controllo radiografico di altre possibili lesioni, l’abbiamo lasciata rilassare e riposare per 10/15 minuti prima di anestetizzare la zona. Intanto il dente espiantato è stato deterso dal sangue incrostato, da eventuali tracce di terra e da altre impurità utilizzando una soluzione fisiologica e un detergente a pH neutro, evitando disinfettanti caustici o la sterilizzazione al calore.
La disinfezione del canale radicolare è stata eseguita solo con soluzione antibiotica topica (Rifamicina) e soluzione fisiologica (NaCl 0,9%).
In questa paziente con apice completamente sviluppato si è proceduto alla terapia canalare extraorale in tempi assai brevi con riempimento del canale con endomethasone (figg. 4 e 5) (16).
Nel paziente giovane con apice beante e denti permanenti alcuni autori consigliano il reimpianto diretto senza la cura canalare (17); altri si riservano di decidere per una successiva terapia canalare dopo eventuali controlli radiografici nel tempo (18, 19).
Nel nostro caso, dopo l’effetto dell’anestesia, si è provveduto alla palpazione dell’alveolo, comprimendolo fra le dita e controllando che non vi fosse percezione di frattura delle sue sottili pareti, perché a nostra esperienza le piccole fratture marginali vanno sempre eliminate, per evitare che, andando in necrosi, disturbino l’osteoanchilosi del reimpianto. L’alveolo è stato quindi deterso dai coaguli ed irrigato con soluzione fisiologica ed antibiotica. Nel reintrodurre il dente nell’alveolo si è percepita la sensazione che il dente fosse “risucchiato” nella cavità (fig. 6).
La sua fissazione temporanea ai denti fissi contigui è stata eseguita con legatura metallica (ottimo il sottile filo metallico da ortodonzia di 0,1 mm); in alternativa si poteva usare un bloccaggio ortodontico esteso (fig. 7).
Di fondamentale importanza è stato il controllo che il dente, così fissato, non fosse sottoposto a traumi statici e dinamici: ogni sollecitazione ne avrebbe impedito l’eventuale anchilosi (20).
La legatura contentiva è stata tolta a distanza di 2 mesi (figg. 8-11).
A qualcuno che non avesse pratica di ortodonzia o di legature temporanee di denti mobilizzati da malattia parodontale, potrebbe risultare difficile il bloccaggio del reimpianto con il sottile filo metallico. In situazioni di emergenza, dopo aver riposizionato il dente espiantato, si può collegarlo e bloccarlo ai denti fissi contigui con un arco parziale da ortodonzia, estemporaneamente piegato secondo la curvatura dell’arcata e bloccato ai denti, dopo mordenzatura, con resine auto o fotopolimerizzabili oppure con splintaggio diretto con le medesime resine (21).
Alla paziente, ultimato l’intervento, è stata prescritta terapia domicilare di copertura antibiotica (Amoxicillina) ed antidolorifica (Nimesulide).
La paziente è stata avvertita che il reimpianto non poteva avere durata illimitata, ma che avrebbe potuto comunque mantenersi stabile e funzionante per diversi anni. È stata inoltre avvisata che nel momento in cui la radice del dente reimpiantato si fosse completamente riassorbita, si sarebbe potuto sostituirla con un monoimpianto.
RISULTATI
Questo caso clinico è stato seguito con controlli semeiologici e radiologici periodici per 23 anni ed attualmente presenta ancora la stabilità anchilotica dell’elemento 21 reimpiantato nel 1992, come è evidente nella documentazione raccolta (figg. 12-16).
Per migliorarne l’estetica il dente è stato trattato con un prodotto sbiancante adatto al trattamento dei denti devitalizzati (tipo Endo con perossido di Idrogeno al 35%), mediante tecnica “Walking Bleach” (22).
DISCUSSIONE
La sostituzione del legamento alveolo dentale con l’osteoanchilosi del dente reimpiantato fa parte, paradossalmente, anche del suo processo di rigetto.
Con il termine di anchilosi si intende la perdita definitiva, parziale o totale, dei movimenti di un’articolazione, provocata da alterazioni anatomiche dei suoi componenti, che nel caso dei denti espiantati e reimpiantati è formata dal cemento radicolare, istologicamente molto simile al tessuto osseo, dalle fibre di Sharpey, dal legamento alveolare, dai capillari emolinfatici che lo attraversano e dallo straterello d’osso cribroso della “lamina dura” .
Con l’espianto viene improvvisamente interrotto ogni scambio emolinfatico fra il tessuto osseo, il paradenzio e la radice del dente a causa della lacerazione di tutto il complesso legamentoso dell’articolazione osteocementizia: praticamente viene distrutta gran parte della struttura che trattiene il dente nell’alveolo (23).
Negli espianti rimangono spesso ancora integri i due strati di cemento che ricoprono la dentina radicolare e la lamina dura che delimita l’alveolo beante. Quest’ultimo, dopo il sanguinamento iniziale, trattiene un coagulo ematico, che sarà la matrice del tessuto di granulazione, che successivamente provvederà all’osteogenesi riparativa dell’alveolo beante. Se il dente viene subito reimpiantato, e se non sono presenti fratture ossee alveolari, l’unica parte dell’articolazione osteodentale che l’organismo dovrà sostituire dopo averne riassorbiti i residui lacerati, sarà il legamento alveolare, rimanendo ancora indenni sia il cemento radicolare, sia la corticale cribrosa dell’alveolo vuoto.
Dopo tali tempestivi reimpianti, il versamento ematico intraradicolare si organizzerà rapidamente in un sottile deposito di fibrina successivamente sostituito da connettivo neoformato, suscettibile di far posto, in rapporto allo stato di immobilità in cui sarà mantenuto il reimpianto, sia ad uno strato di tessuto fibroso denso, sia ad uno strato di tessuto osseo vero e proprio, che si interporrà fra la lamina dura ed il cemento radicolare.
L’anchilosi del dente reimpiantato sarà tanto più estesa e più rigida quanto più prevarrà il tessuto osseo di nuova formazione in rapporto allo strato fibroso iniziale, transitorio o permanente. E dallo stesso momento in cui il tessuto osseo neoformato si unisce al cemento radicolare, iniziano anche i processi di rizolisi della radice e del conseguente “rigetto” progressivo del reimpianto (24).
In un dente espiantato ed immediatamente reinserito il cemento radicolare, molto simile all’osso, manterrà la stessa vitalità residua dei trapianti d’osso autologo, che possono attecchire senza essere totalmente riassorbiti su altre sedi ossee cruentate chirurgicamente; e questo è il caso di quei reimpianti, praticamente immediati, che rimangono in sito per decenni, con un ridottissimo riassorbimento radicolare periferico (25).
I denti reimpiantati più tardivamente hanno perduto la vitalità residua del cemento radicolare, ormai ridotto ad uno strato di tessuto necrotico, da sostituire. L’osteogenesi riparativa dello strato intermedio lo raggiungerà, fagocitandone progressivamente i tessuti già morti, che sostituirà con l’osteoanchilosi della radice. Essa rimarrà comunque saldamente incarcerata ed incorporata nell’osso neoformato fino alla sua rizolisi totale ed alla caduta della corona ormai privata del proprio supporto. Ciò che è stato appena descritto è il caso di tutti i reimpianti “archeologici” di denti espiantati traumaticamente e rimessi tardivamente nei propri alveoli.
Il processo di riassorbimento delle radici prosegue talvolta per anni, secondo tempi proporzionali all’intervallo intercorso fra gli espianti e i reimpianti, riuscendo tuttavia a conservarne per lungo tempo la funzione grazie, paradossalmente, alla stessa meccanica “espulsiva” dell’osteoanchilosi “includente”.
Ci troviamo di fronte al medesimo processo di “osteointegrazione” che ritiene saldamente, per anchilosi, anche gli impianti, senza alcuna interposizione di connettivo fibroso fra il metallo biocompatibile non riassorbibile di cui sono formati ed il tessuto osseo che vi si appone, modellandosi direttamente su tutte le irregolarità del profilo microscopico della sua superficie (26).
CONCLUSIONE
Il reimpianto di un dente avulso può avere risultati positivi a lungo termine se il tempo di permanenza extraorale è reso minimo da un reinserimento rapido con mezzi di contenzione appropriati. L’eventuale infezione del canale radicolare viene prevenuta con una terapia endocanalare.
La letteratura ha dedicato numerosi lavori al reimpianto dei denti (27, 28, 29), evidenziando come quello di denti parzialmente formati (in cui gli apici radicolari non sono ancora completati) è seguito da una percentuale maggiore di successi rispetto al reimpianto dopo 2-3 ore di permanenza extraorale e dopo terapia endodontica.
La circolazione sanguinea in denti non completamente formati viene riabilitata velocemente rimanendo una relativa connessione attraverso il largo cribo apicale con il parodonto. Nei denti completamente formati la sconnessione vasculo-nervosa che avviene con il trauma non permette un ripristino della circolazione sanguinea con conseguente perdita della vitalità, pertanto la polpa deve essere sostituita con una terapia canalare.
La decisione di reimpiantare un dente avulso deve essere presa in considerazione dopo il calcolo della lunghezza del periodo di tempo in cui il dente è rimasto fuori dal cavo orale e dallo studio di sviluppo dello stesso. Sottolineiamo che il reimpianto non può avere una durata illimitata, ma potrà reggersi per parecchi anni mantenendo uno spazio osseo adatto per l’eventuale sostituzione conservativa con un monoimpianto (30). ●
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