Non v’è dubbio che anche l’odontoiatria, così come altre discipline mediche e non, sia entrata nel “Novacene” (James Lovelock), la cosiddetta età dell’iperintelligenza. In tal senso risulta davvero difficile non chiosare il pregnante editoriale redatto, con la consueta lucidità, dal ch.mo professor Enrico Gherlone sul numero di settembre di Doctor OS.
Mentre molti osservatori dello stato della professione, io tra questi, monitorano costantemente il profilo socio-economico della stessa, ecco che l’estensore, con maestria, sposta l’attenzione sul livello qualitativo delle cure erogate nella pratica quotidiana, anche e soprattutto alla luce delle nuove tecnologie, dei nuovi materiali, eccetera.
Come sottolineato nel sopraccitato editoriale, il prof. Gherlone, anche richiamando un passaggio di un articolo redatto da Barbara Ehrenreich e comparso tempo fa sul New York Times, evidenzia come 30e che, molto spesso, pensando che affidarsi alle nuove tecnologie per elevare la qualità delle cure in realtà porti all’effetto opposto e cioè ad un incremento dei fallimenti, anche in termini di ridotta durata nel tempo delle terapie adottate.
Le nuove tecnologie, come viene ricordato, devono essere considerate ausiliarie ai tradizionali processi operativi. Ed ancora, superando l’innata scrupolosità e coscienziosità di moltissimi odontoiatri, le curve di apprendimento per i più giovani, piuttosto che l’aggiornamento per i senior, davvero sono adeguate per erogare un’odontoiatria di qualità alla luce dell’evoluzione tecnologica, senza che ciò venga interpretato come una “scorciatoia”, rispetto ai tradizionali modelli operativi?
Davvero ci si deve interrogare con maggiore intensità sul tema della qualità delle cure odontoiatriche erogate nel nostro Paese dai 63354 iscritti all’albo odontoiatri al gennaio di quest’anno. L’analisi sin qui sviluppata, non v’è dubbio venga influenzata anche dalla situazione intrinseca della professione, una libera professione fiaccata da costi gestionali in continuo aumento, da un’asfissiante burocrazia e da una conseguente redittualità inevitabilmente al ribasso.
Da qui la propensione sempre più accentuata alla pratica professionale in forma collaborativa tanto per i giovani che per i senior, a discapito di quel patto generazionale tanto evocato, soprattutto per la sopravvivenza dello studio mono professionale, vera spina dorsale della professione.
D’altra parte, i notiziari economici esaltano per il nostro Paese un importante rimbalzo del PIL nel post lockdown, ma spesso non evidenziando che i quasi 2000 miliardi di debito pubblico corrispondono più o meno ai circa 2000 miliardi di liquidità sui depositi bancari degli italiani, liquidità fortemente aumentata nell’ultimo anno, certamente anche per timore di ciò che la pandemia avrebbe potuto comportare sotto un profilo economico.
E tutto ciò pur con un potere d’acquisto dei salari sempre più ridotto, aspetto quest’ultimo che porta il cittadino paziente a calibrare le proprie scelte di spesa in modo oculato e condizionato dalle chimere dello status sociale, non necessariamente rivolte ad una maggior attenzione rispetto alla cura della propria salute orale.
Risulta, dunque, plausibile che questa sommatoria di aspetti possa far pensare che in alcuni casi, magari laddove la professione è assillata da business esasperato, si arrivi a praticare con maggior disinvoltura “un’odontoiatria approssimativa”.
Non vogliamo credere a ciò, ma non v’è dubbio che una profonda riflessione ora e ancor più per il futuro sia doverosamente necessaria, anche per poter riaffermare la tradizionale bontà delle cure odontoiatriche nel nostro Paese, a vantaggio della nostra unica fonte di lavoro, il paziente, che non possiamo certo permetterci di deludere.