II test sono molto importanti perché, oramai lo sappiamo, il Coronavirus può essere diffuso anche da persone che non hanno i sintomi, o che ancora non presentano i sintomi: infatti, circa il 50% dei contagi proviene proprio da persone che, pur non avendo sintomi, sono in grado di trasmettere il virus.

Dunque l’utilità principale del test in questo momento, oltre a quella di fare diagnosi clinica, sta proprio nell’identificazione delle persone che possono trasmettere l’infezione, per isolarle e isolare i loro contatti.

Per questo scopo i test sierologici sono inutili. Dimostrano la presenza di anticorpi nel sangue, che sono il segno di una infezione avvenuta nel passato.

Se il test sierologico è positivo, il paziente può essere non infettivo perché gli anticorpi possono essere dovuti a una infezione lontana nel tempo e già risolta; se il test è negativo, il paziente può essere nel momento iniziale della malattia (quello in cui la contagiosità è massima), quando gli anticorpi non sono stati ancora prodotti, ma si è in grado di infettare gli altri. In altre parole, il test sierologico per capire chi è infettivo e isolarlo non serve a molto.

Per valutare l’infettività degli individui il test principalmente usato è il “tampone”; in realtà si tratta di un esame molecolare che viene eseguito su un tampone rino-faringeo.

L’esame è chiamato PCR (polymerase chain reaction, reazione polimerasica a catena) e serve a dimostrare la presenza del genoma a RNA del virus nelle secrezioni raccolte con il tampone. Questa metodica è estremamente efficace e si basa sull’amplificazione delle molecole di DNA (il genoma a RNA del virus viene trasformato come prima cosa in DNA) che viene “raddoppiato” con delle reazioni enzimatiche.

Questo test è molto specifico: infatti è “costruito” in modo da “vedere” solo il genoma di SARS-CoV-2 e non di altri virus. Inoltre tale è la “potenza” di questa amplificazione che anche con la presenza di una sola molecola di RNA virale il test può dare un risultato positivo. Questo è un vantaggio e uno svantaggio al tempo stesso.

Da un lato, la metodica così sensibile – quando negativa – assicura in maniera molto affidabile sulla non infettività del soggetto; ma dimostrando il test la presenza non del virus ma del suo genoma, e ottenendosi un risultato positivo anche con poche molecole presenti, è molto probabile che alcuni dei positivi (non sappiamo quanti) non siano in realtà più infettivi. Però al momento è il meglio che abbiamo.

Sono in arrivo però dei test “rapidi” che non dimostrano la presenza del genoma del virus, ma delle sue proteine. Questi test vengono detti “antigenici” perché sfruttano degli anticorpi specifici per le proteine del virus.

Concettualmente funzionano in maniera identica ai test di gravidanza: mentre i test di gravidanza dimostrano la presenza di una proteina che si trova nelle urine quando una donna aspetta un bambino (la gonadotropina corionica umana), i test per il virus dimostrano nel tampone la presenza di proteine del virus.

In questo caso manca completamente il passaggio di “amplificazione genica”, per cui questi test sono in generale molto meno sensibili. Se il PCR riesce a dimostrare la presenza di due molecole di RNA virale, questi test sono in grado di evidenziare la presenza di ventimila proteine virale, per darvi un’idea.

Questo però potrebbe non essere un problema, perché se comunque in questo modo si riuscissero a identificare le persone più infettive potendole immediatamente isolare, avremmo dato un colpo mortale alla diffusione del virus. Quello che dobbiamo sapere – e che ancora non sappiamo – è quale percentuale di persone infettive riescono a identificare tali test rapidi.

Se la percentuale fosse alta saremmo a cavallo e avremmo una nuova arma potentissima per combattere la diffusione di questo virus maledetto.

Sono in arrivo dei test “rapidi” che non dimostrano la presenza del genoma del virus, ma delle sue proteine. Questi test vengono detti “antigenici” perché sfruttano degli anticorpi specifici per le proteine del virus

Nel momento in cui fossero disponibili, a mio avviso si potrebbe pensare di coinvolgere gli odontoiatri e gli igienisti dentali nello screening.

Tali professionisti, infatti, sono in grado di operare perfettamente in condizioni di sicurezza per loro stessi e per i pazienti, la manualità del test è certamente alla loro portata e l’esecuzione del test potrebbe essere anche una occasione per una valutazione della salute orale e per l’identificazione di problemi di pertinenza odontoiatrica che certamente non scompaiono durante la pandemia di COVID-19.
Tuttavia non abbiamo dati definitivi su questi nuovi test e dobbiamo ancora pazientare un po’. Basti pensare solo che l’AIDS è stato identificato come malattia nel 1981 e un test per diagnosticare in laboratorio l’infezione è arrivato più di tre anni dopo. Anche per l’epatite C c’è voluto molto tempo, però quando nel 1990 un test efficace è risultato disponibile, la diffusione dell’infezione è crollata. Potrebbe succedere lo stesso per questo nuovo coronavirus. Per la prevenzione di entrambe le malattie, odontoiatri e igienisti dentali hanno dato un importante contributo, dunque non c’è motivo di pensare che non possano darlo anche contro COVID-19.

Dunque teniamo duro, opponiamo una strenua resistenza alla diffusione di SARS-CoV-2 attraverso test rapidi, farmaci, vaccini. La scienza si sta muovendo a una velocità senza precedenti e tra poco questa infezione sarà solo un brutto ricordo. Nel frattempo, teniamola a bada con mascherine, mani pulite e distanziamento sociale. ●

La scienza si sta muovendo a una velocità senza precedenti e tra poco questa infezione sarà solo un brutto ricordo. Nel frattempo, teniamola a bada con mascherine, mani pulite e distanziamento sociale

Bibliografia

1 https://jamanetwork.com/journals/jama/fullarticle/2772459
2 https://www.nature.com/articles/d41586-020-02661-2