Innanzitutto grazie per aver accettato il nostro invito. Ci parli di suo padre, dei suoi studi, di quando iniziò a collaborare con il nonno seppur ancora giovanissimo…

Non è facile affrontare questa intervista, ma so quanto mio padre ci tenesse e risponderò con emozione. Al babbo non piaceva molto studiare sui libri, era più appassionato di tecnica, di meccanica, aveva voglia di capire come funzionavano le cose, possedeva una curiosità innata. Tutto ciò lo portò prestissimo ad interessarsi a ciò che faceva il padre, mio nonno Mario, che operava nel settore dentale, e volle fare qualcosa di suo aprendo un deposito dentale.

Nel 1961, alla scomparsa del nonno, prese il timone dell’azienda e decise di dedicarsi alla produzione di prodotti per l’ortodonzia: come ebbe questo intuito, quando questa branca era ancora agli albori?

Alla morte del nonno, il babbo si trovò a dover gestire questa azienda piccola, a carattere artigianale, e scoprì che possedeva un know how piuttosto elevato, soprattutto nella lavorazione dell’acciaio inox. Si guardò intorno per capire dove poter applicare questa conoscenza nel dentale. I prodotti tipici della fabbrica erano le capsule e le sussioni in acciaio, materiale che, a partire dagli anni Sessanta, con il boom economico, venne soppiantato dalle leghe auree: bisognava trovare nuovi mercati per la produzione. Grazie anche all’incontro con l’odontotecnico Fiorino Pagani, scoprì l’ortodonzia, dove l’acciaio inossidabile era la materia prima d’élite.

Nel 1964, introdusse in Italia la tecnica dell’arco gemellare di Johnson, una rivoluzione per quei tempi, un passo avanti rispetto alla sola terapia funzionale dell’epoca.

Il mondo dell’ortodonzia era piccolo ed i contatti erano facili. Il babbo provò a realizzare quegli attacchi, piuttosto semplici per la tecnologia che aveva a disposizione: produsse le due alette, poi la banda e infine introdusse una puntatrice elettrica per poterle saldare… Fu tutta una conseguenza!

Negli stessi anni inizia anche la produzione delle viti ortodontiche e della vite “Pagani”. All’epoca ideava e produceva ancora tutto da solo o iniziava a collaborare con ingegneri o tecnici specializzati? E, a quei tempi, quanti artigiani lavoravano in Leone?

La collaborazione con Fiorino Pagani e con altri personaggi del settore portò a queste progettazioni: le viti rappresentarono una svolta fondamentale per la Leone, che poi si specializzò in questo campo. All’epoca in officina erano una decina, tutti tecnici specializzati, con una grande capacità nelle mani, con un ingegno particolare, che sapeva trovare le soluzioni più efficaci. Una dote del babbo fu senza dubbio quella di circondarsi di persone che avevano una grande passione per ciò che facevano e questo si rispecchia anche nella struttura attuale dell’azienda: anche se siamo in molti, si cercano sempre persone con una forte motivazione.

Nel 1966 l’alluvione di Firenze causò moltissimi danni all’azienda, ma Alessandro Pozzi seppe riprendersi con grande coraggio, determinazione e nuove idee, tanto che per la prima volta in Italia, proprio nel ’66, fabbricò gli attacchi Edgewise, allora una tecnica all’avanguardia. Come ebbe questa fortunata ed eccellente intuizione?

Credo che ciò sia stato dovuto alla sua curiosità: capì il meccanismo e si rese conto di riuscire a produrlo con la tecnologia della sua fabbrica; tutto ciò lo stimolò e i risultati furono buoni. L’anno successivo inventò e produsse la vite per l’apertura della sutura palatale. Una vera rivoluzione, un grande successo…

La “620” è il fiore all’occhiello di Leone, il nostro prodotto di punta da sempre. In quegli anni mio padre produceva viti in acciaio inossidabile, quando tutti i produttori utilizzavano l’alpacca. L’acciaio rese più facile la saldatura di bracci lunghi sul corpo e fu un successo.

Nel 1968 nasce l’Ortec, l’associazione dei tecnici ortodontisti, di cui il papà fu fondatore: come seguì poi nel tempo questa organizzazione?

Il babbo fu un promotore dell’Ortec perché per lui era importante avere uno scambio di informazioni con i tecnici che costituivano il mercato principale a cui l’azienda si rivolgeva. Fu una strategia per proporre prodotti sempre attuali, che fossero adeguati alle richieste.

Nello stesso anno nasce anche la Società Italiana di Ortodonzia. Le raccontò qualcosa di questi primi incontri con gli ortodontisti SIDO?

Il babbo conosceva bene il professor Adorni Braccesi di Firenze, ebbe un ottimo rapporto con lui e con la professoressa Tollaro. Furono loro ad introdurlo nell’ambiente e a presentarlo al gruppo della SIDO. Da lì nacque un’amicizia basata sulla stima reciproca.

Nel 1974 Alessandro Pozzi ebbe un altro felice intuito, comprendendo tra i primi la grande innovazione della tecnica del filo dritto di Andrews, che introdusse in Italia. Come avvenne?

Negli anni Settanta iniziarono i rapporti con l’estero, soprattutto con gli Stati Uniti, dove la tecnica del filo dritto era già sviluppata e che il babbo volle introdurre anche in Italia. Iniziò una collaborazione con i distributori esteri e, per meglio vendere il prodotto, organizzò dei corsi in Italia con relatori stranieri, viceversa portava dei professionisti negli USA per seguire alcune lezioni. Tutto ciò insegnò anche quanto fosse importante la formazione.

Nel 1982, infatti, fonda l’ISO, Istituto di Studi Odontoiatrici…

Si rese conto di come fosse importante diffondere la conoscenza anche per proporre meglio i prodotti che aveva. Decise di strutturare questa formazione realizzando degli spazi dedicati e invitando dei relatori.

In quegli anni nasce anche il Bollettino di informazioni ortodontiche, oggi al numero 95. Come si sviluppò?

Alla base c’era sempre la voglia di dialogare con la clientela, ma anche con tutto il mondo dell’odontoiatria e dell’ortodonzia in particolare. Iniziò con un foglio in cui il babbo scriveva qualcosa di suo, facendo dei commenti e proponendo nuovi prodotti e tecniche, ciò che c’era di attuale in quel momento. Pian piano è diventato sempre più ampio, con l’inserimento di casi clinici, con interviste: l’idea era che se i professionisti erano informati, erano anche più consapevoli nel fare scelte di qualità relativamente ai prodotti.

Nel 1983 ideò i Leolab: cosa erano?

I Leolab esistono ancora oggi e sono una quindicina. Si tratta di laboratori selezionati con cui l’azienda ha un rapporto più stretto, utili per avere un colloquio diretto, per provare ed eventualmente modificare i prodotti. Garantiscono all’odontoiatra un servizio di un certo livello e qualità.

Nel 1990, dopo un grave lutto, Alessandro Pozzi pensò di ritirarsi. Poi però prevalsero il coraggio, la fiducia nel futuro, nella famiglia e nei collaboratori, e seppe reagire.

In quell’anno morì mio fratello, a soli 29 anni. Fu un dramma difficile da affrontare e credo che il babbo sia riuscito a superarlo proprio grazie al suo lavoro, dove mise tutte le proprie energie, anche per portare avanti alcune iniziative di mio fratello, che si era dedicato all’automazione della produzione.

Siamo nel 1994 quando comincia una collaborazione con diverse cliniche universitarie, in primis quella di Firenze con la professoressa Isabella Tollaro, il dottor Lorenzo Franchi, il compianto dottor Tiziano Baccetti e il professor McNamara. Ce ne vuole parlare?

L’amicizia con la professoressa Tollaro risaliva a molti anni prima e la collaborazione col tempo si fece sempre più intensa. Quando presentò al babbo Tiziano e Lorenzo, due suoi alunni eccellenti, dimostrò la fiducia che aveva nell’azienda. Da allora iniziarono incontri molto frequenti, in cui si realizzavano ricerche, si lavorava su idee nuove, c’era uno scambio continuo di informazioni.

L’anno seguente, Alessandro Pozzi, supportato dalla Scuola di Firenze, inizia una stretta collaborazione, che dura tutt’oggi, con le Scuole di Specializzazione in Ortognatodonzia. Leone divenne lo sponsor ufficiale dei loro congressi…

La scelta di essere sponsor è stata abbastanza naturale e convinta. Una volta il simposio delle scuole di specialità fu organizzato presso la nostra sede e venne istituito anche un premio in memoria di Tiziano Baccetti, incentivando così nuovi ricercatori.

Nel 1996 nasce il Leoclub: come è venuta l’idea e quali sono stati i risultati?

L’idea era sempre quella di radunare l’ortodonzia italiana proponendo delle giornate di cultura gratuite a cui tutti potessero partecipare, invitando relatori di fama ma anche professionisti che potessero proporre la qualità nel lavoro pratico quotidiano, portando un contributo da lasciare al corsista.

Dal 2000 iniziò l’idea di sviluppare l’implantologia con il sistema Exacone: come è nato e quali sono stati i risulati?

Mio padre aspettò gli anni 2000 perché solo allora l’implantologia si conobbe in modo approfondito. Lo appassionò l’idea di dedicarsi a qualcosa di nuovo e di creare qualcosa di diverso da ciò che c’era. Nacque quindi il progetto dell’impianto Exacone con la particolarità della connessione a cono morse, quindi senza la vite che assemblava l’impianto al moncone.

Negli ultimi dieci anni il papà ottenne moltissimi riconoscimenti: la certificazione ISO, il premio qualità, entrando nella classifica delle migliori aziende italiane, il riconoscimento FDA. Ma continuò sempre a cercare nuove vie...

Ancora la curiosità portò alla volontà di affacciarsi alle nuove tecnologie digitali, sicuramente affascinanti e ancora in divenire: non volevamo rimanere indietro da quel punto di vista e ci siamo attrezzati per poter portare avanti ricerche in questo senso, realizzando una tecnica di chirurgia guidata per l’implantologia e dei modelli per effettuare una diagnosi ortodontica ottimale partendo da cone beam e tac. Stiamo lavorando molto anche sulla tecnica di posizionamento diretto degli attacchi.

Come nacque l’idea di creare un museo di odontoiatria all’interno della vostra ditta?

Il babbo, se da un lato era affascinato dalle novità, dall’altro era un collezionista, teneva tutto quello che era il suo passato. Decise di radunare tutto ciò che conservava sparso: all’inizio si trattò di poche vetrine dedicate ai nostri prodotti, poi si sparse la voce e da più parti arrivò la richiesta di poter mettere in mostra chi un riunito, chi un trapano... Questa cosa ci divertì e ci appassionò. Abbiamo creato anche una biblioteca con testi antichi e nuovi che possono essere consultati da tutti.

Il papà fu anche un grande sostenitore della solidarietà, aiutando molto con discrezione e in silenzio…

Non è mai stata una persona a cui piaceva apparire in maniera roboante, con iniziative clamorose. Gli aiuti erano più a carattere personale, non solo concreti, ma anche a livello di consigli e partecipazione.

Un’ultima domanda. Mi parli di suo papà come figlia e come madre dei suoi nipoti.

I miei figli definiscono il nonno come un “brontolone affettuoso”. Era solito far loro molte osservazioni, ma questo era il suo modo di dimostrare che li seguiva. Le critiche erano uno sprone a dare il meglio.

 

Chiudiamo, ringraziando Elena, con la frase latina di Orazio “Non omnis moriar”, non si muore completamente: il bene, la grande umanità e umiltà sono state trasmesse ai figli, ai nipoti, all’azienda.