La responsabilità professionale in ambito sanitario: critiche alle proposte di riordino della disciplina

Premessa
Dopo un lungo e laborioso percorso, la Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati, unificando nove proposte di legge, ha diffuso una bozza di proposta normativa che rischia di essere dissipata da una analoga proposta formulata dalla Commissione Consultiva istituita dal Ministero della Salute, di cui si conoscono (solo) i principi ispiratori. Le due proposte, sebbene unite dalla dichiarata volontà di arginare le problematiche economico-sociali afferenti la medicina difensiva e quelle riguardanti la responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie, presentano differenze che meritano di essere esaminate.
L’intento è quello di superare l’art. 3, comma I, del D.L. 158/2012, come sostituito dalla legge di conversione n. 189/2012, il quale recita: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”.
La sua (infelice) formulazione ha creato notevoli dubbi interpretativi in giurisprudenza.

Un’occasione mancata: la riconsiderazione dellateoria del “contatto sociale
La materia della responsabilità sanitaria, forse, meritava di essere affrontata in radice con una revisione (critica) del concetto di “contatto sociale”1, introdotto per adeguare il sistema risarcitorio a quello esistente in altri paesi (sistema dei torts), senza però ricordare che nei sistemi sanitari cd. privatistici il medico e la struttura sanitaria adeguano il costo della prestazione al rischio assunto; nei sistemi cd. mutualistici esistono vere e proprie contemperazioni di varia natura (per tutti si pensi ai limiti imposti dalla legge francese n. 2002/303), nell’unico sistema sanitario universalistico (piuttosto simile al nostro), come quello inglese, sono prefissati gli “standard of care” che delineano criteri mediani della classe medica, mentre nei sistemi scandinavi il professionista è garantito da una assicurazione che, per legge, deve gestire “autonomamente” l’intero processo indennitario (Patientforsakringen Act, 1975).

La proposta della Commissione Affari sociali della Camera
La proposta di legge elaborata dalla Commissione Affari sociali della Camera introduce l’art. 590-ter del codice penale, rubricato “Morte o lesioni come conseguenze di condotta colposa in ambito medico e sanitario”, che prevede: “L’esercente la professione medica o sanitaria che in presenza di esigenze preventive, diagnostiche, terapeutiche e riabilitative, avendo eseguito o omesso un trattamento, cagioni la morte o una lesione personale del paziente è punibile solo in caso di colpa grave o dolo. Ai sensi del presente articolo, la colpa sussiste quando l’azione o l’omissione dell’esercente la professione medica o sanitaria, inosservante delle buone pratiche e delle regole dell’arte, crei un rischio irragionevole e inescusabile per la salute del paziente, concretizzatosi nell’evento”.
La norma pare essere chiaramente generica nella formulazione ed è contrapposta all’intendimento del legislatore posto che il Decreto Balduzzi riserva al sanitario un maggior favore rispetto alla disciplina proposta.
In effetti, la norma nella sua formulazione costituisce un precetto penale integrativo di una fattispecie delittuosa rispetto invece alla “abolitio criminis” attuata dall’art. 3, comma I, del D.L. 158/2012, convertito in legge n. 189/2012.
Quanto alla responsabilità civile, la proposta di legge della Commissione individua due distinte responsabilità: una extracontrattuale, per l’esercente la professione sanitaria, e l’altra contrattuale, per la struttura sanitaria sia pubblica che privata2.
La distinzione di responsabilità, così come proposta, non cambia i temi della questione posto che, com’è noto, la Suprema Corte di Cassazione e la giurisprudenza tutta hanno riconosciuto, in ogni caso, ammissibile il cumulo dell’azione contrattuale con quella extracontrattuale nel medesimo processo così come il concorso di azioni (“…compete all’attore proporre l’una o l’altra azione, o assieme ed alternativamente entrambe azioni”; Scognamiglio, “Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale”, Noviss. Dig. It., XV, 1968, 679).
Ne consegue, pertanto, che l’attore-danneggiato meno sprovveduto agirà cumulando le due azioni, posto, peraltro, che la prescrizione per l’azione extracontrattuale non opera laddove il medesimo fatto sia idoneo ad integrare una fattispecie penale ai sensi del comma 3 dell’art. 2947 c.c.
Sul punto la Cassazione Sezioni Unite del 18 novembre 2008, n. 27337 ha affermato il seguente principio di diritto: “Nel caso in cui l’illecito civile sia considerato dalla legge come reato, ma il giudizio penale non sia stato promosso, anche se per mancata presentazione della querela, l’eventuale, più lunga prescrizione prevista per il reato, si applica anche all’azione di risarcimento, a condizione che il giudice civile accerti, incidenter tantum, e con gli strumenti probatori e i criteri propri del procedimento civile, la sussistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto – reato in tutti i suoi elementi costitutivi, soggettivi ed oggettivi, e la prescrizione stessa decorre dalla data del fatto, atteso che la chiara lettera dell’art. 2947, c. 3, c.c., a tenore della quale se il fatto è considerato dalla legge come reato, non consente la differente interpretazione, secondo cui tale maggiore termine sia da porre in relazione con la procedibilità del reato”.
La proposta della Commissione, inoltre, stabilisce che la struttura può esercitare una azione integrale di rivalsa nei confronti del sanitario soltanto quando il fatto sia commesso con dolo, ponendosi in contrasto con l’art. 28 della Costituzione che sancisce una responsabilità diretta del dipendente dell’ente pubblico.
Un fatto è sostenere una “diversa” responsabilità (essere responsabile solo per dolo), altra questione è affermare che (ferma restando la responsabilità dei singoli soggetti coinvolti) la struttura sanitaria deve farsi carico dell’indennizzo, salvo rivalsa qualora venga riconosciuto in capo al sanitario l’esistenza del “dolo”.
Infine, relativamente all’obbligo assicurativo, pare stridente il fatto che il sanitario debba necessariamente essere assicurato (a qualsiasi costo!), mentre le aziende possano ricorrere al sistema di autoassicurazione che, per definizione, non è un sistema di trasferimento del rischio a terzi (con le conseguenti ripercussioni economiche che possono derivare da tale scelta).

Gli indirizzi espressi dalla Commissione Consultiva del ministero della Salute
Le considerazioni svolte circa il cumulo della responsabilità valgono anche per la proposta della Commissione consultiva per le problematiche in materia di medicina difensiva e di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie, istituita con decreto del Ministro della salute 26 marzo 2015.
Sul punto, però, la Commissione ministeriale propone di distinguere (ai fini della configurazione della natura della responsabilità) tra il medico dipendente di una struttura sanitaria (pubblica o convenzionata) e il medico libero professionista. Per il medico dipendente di una struttura sanitaria (ospedale o casa di cura, pubblica o privata) la responsabilità professionale sarà di natura extracontrattuale (art. 2043 c.c.), mentre per il medico libero professionista sarà di natura contrattuale. Di conseguenza, per i medici dipendenti e convenzionati l’azione risarcitoria si prescriverà in 5 anni e l’onere della prova della colpa graverà sul paziente; per i liberi professionisti la responsabilità sarà contrattuale e l’azione si prescriverà in 10 anni e spetterà al sanitario dimostrare –in sostanza- che i danni lamentati dal paziente-danneggiato non sono stati determinati dalla sua prestazione professionale (art. 1218 c.c.).
A differenza della proposta della Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati quella ministeriale esclude tout court i liberi professionisti che operano all’interno delle strutture pubbliche e private ovvero con contratti libero professionali incentivati dal blocco delle assunzioni e con la politica del risparmio. In questo modo si spingono le aziende sanitarie a ricorrere (abusandone) a professionisti sanitari operanti in regime di libera professione, incentivando così un “nuovo precariato”.
La proposta della Commissione Ministeriale sembrerebbe assoggettare il sanitario ad una azione di rivalsa per gli esborsi che la struttura sanitaria abbia corrisposto a titolo di risarcimento danni derivanti da responsabilità sanitaria dipendente da dolo e colpa grave (tenendo presente che per la formulazione dell’art. 2236 c.c. e della giurisprudenza formatasi su di esso la colpa sanitaria è sempre essenzialmente grave)3. In effetti, l’art. 2236 c.c. (Responsabilità del prestatore di opera) stabilisce che: “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”. In ambito di responsabilità sanitaria, il professionista è esentato da responsabilità solo se il caso non è stato ancora sperimentato nella pratica a sufficienza o adeguatamente studiato dalla scienza o perché non ancora dibattuto con riferimento ai metodi terapeutici da eseguire sicché, di fatto, viene ad escludersi l’applicabilità dell’esimente, per desumere al contrario il comportamento gravemente colposo del sanitario4.
In questo modo, la struttura sanitaria è sempre legittimata ad agire in regresso essendo la responsabilità del professionista “grave” in re ipsa.
Dalla lettura del documento emerge che il sanitario, oltre all’azione di rivalsa civilistica, rimane anche assoggettato all’azione di responsabilità della Corte dei Conti per danno erariale (responsabilità del tutto autonoma rispetto al risarcimento del danno potendo esso riguardare la perdita d’immagine del Sistema sanitario eccetera) che invece è contemperata dall’art. 28 del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 “Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali” che: “In materia di responsabilità, ai dipendenti delle unità sanitarie locali si applicano le norme vigenti per i dipendenti civili dello Stato di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, e successive integrazioni e modificazioni. Le unità sanitarie locali possono garantire anche il personale dipendente, mediante adeguata polizza di assicurazione per la responsabilità civile, dalle eventuali conseguenze derivanti da azioni giudiziarie promosse da terzi, ivi comprese le spese di giudizio, relativamente alla loro attività, senza diritto di rivalsa, salvo i casi di colpa grave o di dolo”. La norma è tuttora vigente anche se disapplicata dagli artt. 24 e 65 del CCNL di cui all’Acc. 8 giugno 2000, gli artt. 24 e 67 del CCNL di cui all’Acc. 8 giugno 2000 e l’art. 25 del CCNL integrativo di cui all’Acc. 20 settembre 2001.
In questo modo, le proposte normative spingeranno il professionista a trovare una assicurazione che non lo tuteli solo per azioni da rivalsa conseguenti alla condanna della Corte dei Conti, ma anche per i residuali profili di responsabilità sorgenti.

Conclusioni
Dalla lettura del Decreto Balduzzi prima e delle recenti proposte di riforma si percepisce una sensazione di frammentarietà diffusa. Gli interventi normativi paiono essere frutto di un processo alluvionale e stratificato, sforniti di una visione organica della disciplina. Ancora una volta, le norme attinenti il sistema socio-sanitario non tengono conto delle caratteristiche e peculiarità dello stesso e, soprattutto, non individuano autonome cause di responsabilità “organizzativa” delle strutture sanitarie. ●

A cura di: Giovanni Pasceri