Sproporzionato il licenziamento per l’uso privato di e-mail aziendale

Con sentenza 18 marzo 2014 n. 6222 la Corte di Cassazione ha stabilito che l’uso, anche quotidiano, della e-mail aziendale per ragioni private, così come l’installazione sul personal computer di programmi non inerenti all’attività lavorativa, non può astrattamente essere considerato fatto idoneo a costituire violazione sufficiente a giustificare il licenziamento del dipendente.
La Suprema Corte, respingendo il ricorso del datore di lavoro contro la sentenza della Corte di Appello, confermava così la reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente “ingiustamente” licenziato.
Secondo la Suprema Corte «il fatto contestato corrispondeva alla fattispecie disciplinare prevista dal contratto collettivo applicabile, ove è stabilita solo una sanzione conservativa per l’infrazione consistente nell’utilizzazione “in modo improprio di strumenti di lavoro aziendali”». Di conseguenza, secondo il Giudice di legittimità, il datore di lavoro «non avrebbe potuto irrogare una sanzione disciplinare più grave di quella pattizia» a nulla rilevando che, nel caso concreto, l’uso improprio dello strumento di lavoro aziendale ha costituito anche la violazione del dovere di obbedienza di cui all’art. 2104 cod. civ.
La violazione del dipendente, sosteneva il datore di lavoro, in presenza di «chiare informative» e «molteplici preavvisi» che invitavano i dipendenti al corretto uso degli strumenti elettronici messi a disposizione, costituiva violazione del principio di correttezza e buona fede sotteso al rapporto di lavoro.
In più, sosteneva il datore di lavoro, nel personal computer del lavoratore era stata riscontrata la presenza di materiale di carattere pornografico e l’utilizzo di programmi coperti da copyright, «con esposizione del datore dal lavoro a conseguente responsabilità». In altri termini, il dipendente «avrebbe dimostrato di intendere il posto di lavoro e il tempo di lavoro come destinato ad attività di svago piuttosto che di adempimento dell’obbligo di prestazione lavorativa».
Per la Suprema Corte le doglianze del datore di lavoro non potevano essere accolte per due distinte ragioni.
La prima in quanto come sostenuto dal Giudice in appello, «il datore di lavoro non può irrogare un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo applicabile in relazione ad una determinata infrazione»; la seconda in quanto le disposizioni datoriali in ordine all’uso dei computer aziendali non prospettavano «una violazione di distinti obblighi contrattuali, rilevando solo ai fini della valutazione della gravità dell’inadempimento».
Infine, la rilevata presenza di materiale pornografico non corrisponde ad una specifica contestazione di addebito formulata con la suddetta lettera o la presenza di programmi coperti da copyright, sotto un profilo giuslavoristico, non rileva come autonoma causa di licenziamento rimanendo assorbita nel comportamento complessivo del lavoratore.
La sentenza in commento che costituisce verità giuridica stride molto, a dire la verità, con la realtà sociale e lavorativa del momento storico in cui viviamo.
Il datore di lavoro può difendersi da abusi perpetrati (si pensi all’installazione di software abusivo che possa cancellare i dati sensibili del dentista o la diffusione degli stessi) predisponendo un codice disciplinare aziendale, portato a conoscenza di tutti i lavoratori mediante affissione, che definisca chiaramente quali siano i comportamenti non tollerati e quali sanzioni verranno irrogate nel caso concreto.
Secondo la giurisprudenza maggioritaria, al fine di assolvere all’obbligo imposto dallo Statuto dei Lavoratori, non occorre predefinire tutte i possibili comportamenti astrattamente verificabili ma è sufficiente indicare sinteticamente all’interno del regolamento disciplinare le possibili infrazioni ed il criterio di corrispondenza con le sanzioni comminabili.

Valentina Vitale

A cura di: Giovanni Pasceri