La compensazione tra dipendente e datore di lavoro

Il tema della compensazione, un istituto giuridico elementare e da sempre presente nella storia dell’uomo con una regolamentazione piuttosto semplice, ha assunto, nel mondo del diritto del lavoro, una portata perlomeno esagerata. Infatti da anni è in auge un orientamento, sostenuto da diverse pronunce della Corte di Cassazione nonché da interventi del Consiglio di Stato e della Corte Costituzionale, secondo il quale detto istituto, dettagliatamente descritto nel codice civile, avrebbe una seconda natura, parallela e sovrapposta all’originale, definita a-tecnica, che opererebbe, nei rapporti di lavoro, in modo difforme dalla disciplina codicistica.
Va da subito ricordato, infatti, come la compensazione sia regolata dal codice civile agli art. da 1241 a 1252 e operi qualora due persone siano obbligate una verso l’altra permettendo di estinguere i due debiti per quantità corrispondenti fino al residuo.
In tal modo si consente di soddisfare le reciproche pretese creditorie attraverso la rinuncia e neutralizzazione dei rispettivi crediti, permettendo di evitare un duplice pagamento.
Affinché si possa dare corso alla compensazione prevista dal codice civile è necessario che i crediti siano entrambi certi, liquidi ed esigibili oltre che autonomi, cioè non derivanti da uno stesso ed unico rapporto intercorso tra le parti e non legati da un vincolo di sinallagmaticità.
Proprio su questo punto sono intervenute diverse pronunce della Cassazione (6320/1984, 7337/2004, 5024/2009 eccetera) le quali sottolineano che allorquando i rispettivi crediti e debiti traggano origine da un unico rapporto intercorso tra le parti, la valutazione delle reciproche pretese si trasforma in un semplice accertamento contabile di dare ed avere, dando esistenza alla forma a-tecnica, o altrimenti detta impropria, della compensazione.
Per quanto questa costruzione giuridica sia di facile apprendimento e di intuitiva applicazione presenta dei problemi: un primo ordine di problemi consiste nel fatto che questa costruzione giuridica, così come la sua applicazione, non è prevista dal codice ma è frutto di un’interpretazione giuridica, giusta quanto si vuole, ma pur sempre arbitraria.
D’altra parte questo sarebbe un problema minore se non fosse che tale costruzione contribuisce a svilire il quadro normativo effettivamente presente, in materia di compensazione tra debiti, in ambito lavorativo.
Infatti proprio la compensazione impropria, perché nascente da un rapporto di lavoro, o in ipotesi anche di agenzia, è quella che si verifica qualora vengano a crearsi situazioni debitorie reciproche tra datore di lavoro e lavoratore.
Attraverso l’adozione della compensazione impropria viene a crearsi però un conflitto con quanto previsto ed esplicitato dal codice civile, sempre in materia di compensazione, all’art. 1246.3, il quale prevede la non possibilità di compensazione con crediti dichiarati impignorabili, quali, ad esempio, le somme dovute da privati al lavoratore a titolo di salario, stipendio o altre indennità comunque riferibili al rapporto di lavoro, le quali sono pignorabili nel limite massimo di un quinto.
Quindi la Cassazione, con le sue pronunce, autorizza una costruzione giuridica, non prevista da nessuna norma, la quale prevale invece su ben due norme ( art. 1246.3 c.c. e 545.4 c.p.c.) tra l’altro in una materia, quale il diritto del lavoro, dove la tutela del lavoratore è di ispirazione alla stesura delle regolamentazioni.
La compensazione impropria permette così al datore di aggirare, peraltro su indicazione e con il supporto dell’organo giudiziario anche se nel perseguimento di un fine più che lecito, la legislazione a tutela del lavoratore.
Pur esprimendo disappunto per la scelta più volte sostenuta dalla Corte di Cassazione di privilegiare, in assenza di un preciso disposto in materia, la compensazione completa tra i debiti del lavoratore e quelli del datore di lavoro piuttosto che tutelare la fonte di reddito di quest’ultimo, così come previsto per legge in modo preciso e coerente con il sistema generale e con la Costituzione (qui non si vuol dire che i crediti del datore di lavoro debbano per forza essere sacrificati nel confronto con i rispettivi crediti del lavoratore, ma soltanto che, prima di tutto non si vede perché debbano prevalere rispetto a crediti di terzi estranei al rapporto e poi per quale motivo debba essere messa da parte la scelta del legislatore, opinabile ma sempre frutto del lavoro dei rappresentanti del popolo, di garantire maggior tutela ai redditi derivanti da attività di lavoro subordinato) va ricordato che la compensazione impropria non opera in ogni caso, ma soltanto sulla base di precisi presupposti rinvenibili nelle caratteristiche di certezza, liquidità ed esigibilità del credito, cosicché qualora manchi una di queste caratteristiche non si potrà fare ricorso alla compensazione.
Nella pratica tutto ciò non deve sembrare di poco conto.
Infatti il datore non potrà compensare i propri debiti nei confronti del lavoratore con quelli derivanti dalla condotta del lavoratore che abbia arrecato un danno all’azienda prima che risultino con certezza, in apposito giudizio, tanto l’entità del danno quanto la responsabilità del lavoratore. ●

Gabriele Papagna

A cura di: Giovanni Pasceri