Errata comunicazione ricavi nella richiesta di un prestito garantito ad istituto bancario

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Ho chiesto alla mia banca, per la situazione emergenziale che ha colpito anche la mia attività professionale nella primavera del 2020, un prestito garantito come previsto dal decreto Liquidità ma mi sono accorto che ho indicato nella domanda ricavi per circa 90.000 euro rispetto agli effettivi conseguiti e pari a circa 60.000 nel 2018. Rischio qualcosa tenuto conto che, comunque, con il mio istituto di credito ho un rapporto pluriennale di fiducia e non mi sono stati richiesti documenti aggiuntivi?

Il fatto rappresentato costituisce una grave irregolarità soprattutto se attuato con dolo e non si riuscisse a dimostrare il solo colpevole errore. Il problema di fondo non è il buon rapporto e la fiducia con la banca che lo ha concesso ma la tutela della funzione creditizia. Il decreto Liquidità (D.L. 23/2020) nella sua versione definitiva (a seguito di conversione in legge 40/2020) prevede all’art. 13 comma 1 lett.m) la possibilità di ricorrere al Fondo di Garanzia (al 100%) per i finanziamenti concessi dal sistema creditizio (max 30.000 euro) in applicazione di tale punto della norma sempre che l’operazione finanziaria non superi alternativamente:

  • il 25% del fatturato (inteso in senso civilistico), quindi in caso di professionista ci si riferisce ai compensi;
  • il doppio della spesa salariale annua del beneficiario (compresi gli oneri sociali e il costo del personale che lavora) per il 2019 o per l’ultimo anno disponibile.

Ulteriore condizione prevista è quella di non essere gravati da specifiche condanne per reati ostativi all’accesso all’agevolazione.

La norma è rivolta anche ai professionisti o alle loro associazioni professionali la cui attività professionale sia stata danneggiata dall’emergenza Covid-19, secondo quanto attestato dall’interessato mediante dichiarazione autocertificata. I valori della norma sono riferiti all’ultima dichiarazione fiscale presentata alla data della domanda di garanzia ovvero documentati da altra idonea documentazione.

L’esigenza di fornire strumenti rapidi di accesso al credito, senza che le banche svolgessero la consueta e necessaria istruttoria, è stata sopperita ricorrendo all’acquisizione, da parte dell’istituto di credito concedente il finanziamento, di dati “autocertificati” dal richiedente. Sulle stesse autocertificazioni sono basate le delibere formate dal consiglio di gestione del Fondo di Garanzia che ammette il finanziamento alla garanzia “pubblica”.

Questo termine è veramente appropriato tenuto conto che il Fondo di Garanzia gestisce risorse provenienti da fondi pubblici che sono stati appositamente allocati per fornire la garanzia agli istituti di credito qualora non dovessero vedersi onorato il piano di rimborso del finanziamento concesso. Dunque, aver dichiarato un ammontare di ricavi superiore all’effettivo determina una autocertificazione falsa all’istituto di credito. Se grazie al maggiore ammontare di ricavi “comunicato” alla banca si è ottenuto un prestito maggiore a quello massimo ottenibile (nel caso in trattazione il massimo concedibile, non conoscendo l’altro parametro, era un quarto di 60.000 e non un quarto di 90.000) sarà difficile invocare la colpa o l’errore.

Di contro, se pur avendo comunicato un dato maggiore si è richiesto un prestito nel limite del massimo ammesso sarà ben facile rappresentare che il falso è “innocuo”. Se non ci si trova in tale ultima situazione, in caso di controllo eseguito dalla Guardia di Finanza (forza di polizia cui sono demandati i controlli sulla spesa pubblica) sicuramente si potrà incorrere in una denuncia per il reato di “mendacio bancario” per aver “ingannato” l’istituto di credito erogante, come previsto dall’art. 137 del Testo Unico Bancario (“Salvo che il fatto costituisca reato più grave, chi, al fine di ottenere concessioni di credito per sé o per le aziende che amministra, o di mutare le condizioni alle quali il credito venne prima concesso, fornisce dolosamente ad una banca notizie o dati falsi sulla costituzione o sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria delle aziende comunque interessate alla concessione del credito, è punito con la reclusione fino a un anno e con la multa fino ad euro 10.000).

In una normale operazione di richiesta di finanziamento questo sarebbe emerso in fase istruttoria allorquando la banca valutava i documenti presentati a corredo della domanda (per impedire ciò si sarebbe dovuto anche presentare una dichiarazione fiscale falsa e modificata a corredo della richiesta). Tutto questo in una prima valutazione, in quanto, l’A.G. potrebbe intravedere anche il più grave reato previsto dall’art. 316 ter del c.p. (“…chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. ..”).

Infatti, sebbene il finanziamento sia erogato da una banca privata, la concessione della garanzia proviene dal Fondo di Garanzia, gestito da un pool di banche, ma di proprietà del Ministero per lo Sviluppo Economico e la garanzia è frutto di un “rifornimento” di fondi pubblici, tanto né è che occorre l’autorizzazione dell’Unione Europea trattandosi di aiuto di Stato (si agevola l’accesso di privati al credito con risorse pubbliche).

La misura agevolatoria promossa dal Governo era sicuramente appetibile sia per il basso tasso di interesse (che comunque andava negoziato con la banca) ma soprattutto per le modalità molto diluite di rimborso. I limiti legislativi sono una barriera al corretto utilizzo dell’aiuto pubblico su cui si è basata l’Unione europea per approvare la misura. L’eventuale consapevole conoscenza del dato falso e non veritiero da parte del dipendente della banca che omette di segnalare l’errore ed arginare la frode (qualora non si tratti di errore), magari indotta proprio dalla volontà di non perdere un cliente conosciuto, fa scattare delle responsabilità penali anche nei confronti dello stesso dipendente per il medesimo reato di cui al citato art. 137 T.U.B..

Questo presuppone che si riesca a dimostrarne la consapevolezza, difficile nei casi di ricorso massivo alla richiesta di finanziamenti garantiti, visto che le banche hanno spesso adottato modalità pressoché “automatizzate”, in particolare per i finanziamenti sino a 30.000 euro, per evitare rallentamenti in contrasto con la volontà politica.