Libera circolazione in Unione Europea delle persone: sì ma con parsimonia

Diritto di soggiorno e assistenza sociale: le prestazioni sociosanitarie dei soggetti che non partecipano alla produzione e alla crescita nazionale

Come è noto, la Direttiva n. 2004/38/CE sulla libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione Europea stabilisce che il cittadino di uno Stato membro che sia in cerca di occupazione conserva la qualità di lavoratore per un periodo che non può essere inferiore a sei mesi, qualora in una delle seguenti condizioni:

  • si trovi in stato di “disoccupazione involontaria” debitamente comprovata al termine di un contratto di lavoro di durata determinata inferiore ad un anno;
  • si sia venuto a trovare in tale stato durante i primi dodici mesi.

Secondo la direttiva citata, durante questo stesso periodo il cittadino UE:

  • conserva il suo “diritto di soggiorno” nello Stato membro ospitante (ex art. 7);
  • può avvalersi del “principio di parità di trattamento” (ex art. 24).

In base alla norma europea, dunque, i cittadini UE conservano il proprio “status” di lavoratori sulla base del citato art. 7 della direttiva n. 2004/38 e, conseguentemente, hanno diritto a continuare a beneficiare delle prestazioni di assistenza sociale per il periodo di almeno sei mesi.
La Corte di Giustizia UE, con sentenza 15 settembre 2015 n. 67/14, ha stabilito il principio secondo cui è compatibile il diritto alla libera circolazione delle persone in ambito europeo con la normativa di uno stato membro (nel caso di specie era la Germania) che esclude alcune prestazioni di assistenza sociale, ancorché le stesse che abbiano lavorato sul territorio dello Stato ospitante siano legittimamente sul territorio nazionale.
In questo modo, la Corte di Giustizia Europea (ribaltando il precedente orientamento giurisprudenziale espresso nei procedimenti C22/08 - Vatsouras e C/23/08 – Koupatantze secondo cui i cittadini UE i quali hanno conservato il proprio “status” di lavoratori sulla base ex art. 7 della Direttiva UE hanno diritto a prestazioni di assistenza sociale) ha stabilito che uno Stato UE può introdurre norme che neghino le prestazioni di assistenza sociale ai cittadini dell’Unione Europea che abbiano richiesto tali prestazioni dopo aver lavorato sul territorio dello Stato ospitante del quale non abbiano la cittadinanza.
La sentenza in commento conferma la legittimità della normativa tedesca rispetto alla Direttiva Europea che garantisce le prestazioni di assistenza sociale ai soli cittadini tedeschi atteso che, diversamente, il complesso delle prestazioni sociali erogate ai cittadini di altri Stati membri costituirebbe un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale dello Stato membro ospitante nell’ambito del suo soggiorno.
Nel caso di specie non si discute dell’universalità del diritto alla salute (in Germania vige il sistema sanitario mutualistico) ma del principio - ora messo in discussione - di solidarietà e rispetto dei diritti fondamentali della persona sotteso alla Direttiva Europea e, soprattutto, della “certezza del diritto” smentito in base ad una discutibile (e forzata) interpretazione giurisprudenziale secondo cui non hanno diritto a beneficiare delle prestazioni sociosanitarie i soggetti che non partecipano alla produzione e alla crescita nazionale. ●