Damaso Caprioglio

Professor Caprioglio, cosa l’ha spinta ad intraprendere gli studi in Medicina e Chirurgia?

Frequentavo il liceo classico a Casale e i miei professori erano convinti che mi sarei dedicato alle lettere greche e romane. Avevo però una sorella al quarto anno di Medicina e un cugino chirurgo e, grazie a loro, iniziarono ad affascinarmi anche le materie biologiche. Pertanto, l’estate dopo la maturità mi dedicai all’osteologia frequentando il laboratorio del liceo.
Questi sono stati gli stimoli principali.

Perché poi maturò la decisione di conseguire la specializzazione in Odontoiatria e Protesi Dentaria, in quegli anni considerata una specialità di serie B, se non di serie C?

Durante gli ultimi due anni di università a Torino, dal 1956 al 1958, vinsi il posto di capo allievo interno in Ortopedia e Traumatologia, appassionandomi molto a quest’ultima, soprattutto alla traumatologia del viso. Dedicai poi la mia tesi sperimentale alla chirurgia della mano, un altro dei campi che più mi affascinavano. Mi informai e seppi che a Pavia c’era il professor Palazzi che mi accolse subito; durante l’estate studiai e vinsi una borsa di studio per andare a Berlino. “Quando tornerai – mi disse Palazzi – farai la specialità e ti occuperai di chirurgia”.

Intanto maturò anche, quasi inevitabilmente, l’idea di percorrere la carriera accademica. Come ricorda i primi passi di questo percorso?

Devo innanzitutto ringraziare i miei maestri a Torino, tra cui il professor Amprino, grande istologo, che già a quei tempi ci parlava di DNA. A Torino eravamo un piccolo gruppo di 80-90 studenti, molto uniti, che studiavano molto: ci abituammo subito all’idea di fare della ricerca. Arrivando a Pavia, di ritorno da Berlino, trovai un reparto fantastico diretto dal professor Zerosi, che aveva un laboratorio di istologia unico, mitteleuropeo: mi appassionai e il professor Palazzi mi diede spazio, vinsi un posto di tecnico coadiutore e poi di tecnico laureato. Anche solo con quattro anni di laurea (ce ne volevano in realtà cinque), su suggerimento di Palazzi, presentai la domanda per la libera docenza al ministero, così diventai nel 1964 docente di clinica odontoiatrica.

Poi, da un punto di vista professionale, decise di dedicarsi all’ortodonzia, all’epoca una sorta di specialità nella specialità…?

Devo ringraziare ancora il professor Palazzi, che vide la mia passione per la ricerca e gli studi e che mi fece vincere la borsa di studio per la Freie Universität di Berlino, dove conobbi il professor Mathis, chirurgo maxillofacciale. A Berlino trovai i kinderzahnartz, i dentisti dei bambini, e i reparti di terapia funzionale ortopedica e mi appassionai immediatamente. Al mio ritorno in Italia lo raccontai a Palazzi che ne capì l’importanza e mi affidò una piccola stanza dove poter esercitare l’odontoiatria infantile e sviluppare l’ortodonzia. Il professor Stelio Scotti, amico con cui avevo condiviso l’esperienza a Berlino, mi disse che a Bologna esisteva una scuola di ortodonzia diretta dal professor Mai. Allora, due giorni alla settimana mi recavo a Bologna. Dapprima Mai mi mise a fare solo impronte, ma fu una grande lezione di vita perché capii l’importanza del conoscere tutto, ogni aspetto della disciplina. Lì conobbi l’ortodonzia a 360° e riuscii a intravederne il futuro.

Proprio in quegli anni nacque il GISO, gruppo italiano di studio di ortodonzia. Quali furono i suoi sviluppi?

In Italia non c’era nulla, mentre all’estero la Società Europea di Ortodonzia esisteva già da 50 anni, così come quella francese. Mi iscrissi a queste associazioni e frequentai i loro congressi, tra cui quello di Berna del 1964, dove trovai altri italiani, Cozzani, Magni, Tenti. Tornati in Italia decidemmo di incontrarci per scambiarci le nostre esperienze. L’idea di costituire il gruppo, che nacque il 7 dicembre del 1967 a La Spezia, fu di Cozzani. Ci incontravamo ogni tre mesi in una città e lo facemmo per ben dieci anni per più di 50 riunioni: ognuno portava il suo contributo, una relazione, una recensione, un caso clinico. In seguito con Cesare Luzi portammo avanti l’idea di creare la Società Italiana di Ortodonzia, che nacque a Roma nel 1968.

Dati questi fermenti, maturarono anche i tempi per istituire una Scuola di Specializzazione in Ortognatodonzia, che nacque poi a Cagliari.?

Il professor Falconi, che fece parte del GISO, si attivò molto. Da professore aggregato divenne ben presto ordinario e lo convincemmo (all’epoca io avevo la docenza a Cagliari) a prendere la prima cattedra di professore ordinario di ortodonzia e dal nulla, facendosi affidare un nuovo reparto, con l’aiuto del GISO creò la prima Scuola di Specializzazione in Ortognatodonzia.
Cagliari è stata una scuola oxfordiana, più americana che italiana. C’era un gruppo molto coeso, ognuno portava il proprio know how, le proprie conoscenze. La fama della scuola arrivò subito in tutta Italia e negli anni seguenti vide tra gli allievi Roberto Martina e Adolfo Ferro, che diventarono poi ordinari a Napoli, creando le due grandi scuole, ancora oggi tra le migliori. Otto ex allievi di Cagliari divennero ordinari e associati di ortodonzia. Due o tre anni dopo, lo statuto venne copiato a Padova da Miotti e a Milano da Giannì.

Lei ha avuto anche una grande passione ed entusiasmo per la pedodonzia, grazie anche alla Società Italiana di Odontoiatria Infantile.

Come detto in precedenza, già a Berlino ero venuto a contatto con i kinderzahnartz e con l’odontoiatria pediatrica, molto legata all’ortodonzia. Con il professor Falconi parlammo per anni di odontostomatologia pediatrica, con un ramo di conservativa e traumatologia e uno di ortodonzia.
La SIOI fu la prima società scientifica e nacque nel 1956. Mi iscrissi ad essa nel 1959 e conobbi grandi odontoiatri infantili, tra cui il professor Falcolini e il professor Gallusi. Con Falconi e Falcolini, nel 1964, andai a Londra, dove già esisteva la Società Internazionale di Odontoiatria Pediatrica, e partecipammo con una relazione al suo primo congresso. Un po’ da sfacciati chiedemmo la possibilità di ospitarne in Italia il secondo, che venne organizzato a Siena nel maggio 1969 con oltre 600 partecipanti.
La SIOI ebbe un grande sviluppo, grazie anche a Giovanni Dolci, il primo ordinario di odontoiatria pediatrica a Roma, che aiutò l’associazione a crescere, tanto che oggi ha rapporti con tutte le società internazionali.

Lei ha anche una grande passione per la traumatologia dento alveolare: quali sono stati i suoi sviluppi?.

La traumatologia è stata argomento della mia tesi di specializzazione. Berlino mi permise di conoscere la letteratura internazionale e mi abbonai ad alcune riviste scandinave, dove scrivevano Nordenram e Jens Andreasen. Negli anni Sessanta con i professori De Rischi e Nidoli feci i primi trapianti vitali di denti accostandomi a ciò che stava nascendo a Copenaghen come banca del dente. Poi sono stato molte volte dal professor Andreasen, un grande maestro, che mi ha permesso di sviluppare le mie conoscenze: la migliore scuola è stata quella scandinava.
Negli anni seguenti, anche se in Italia eravamo pochissimi, ricordo per esempio Nicola Perrini, cercammo anche di portare avanti una serie di ricerche sperimentali in questo campo. Negli anni Ottanta, con il professor Gennari, a Parma, creammo un primo gruppo di studio di traumatologia, poi nacque la SIDT che quest’anno compie 20 anni e tiene anche rapporti internazionali.

In particolare, viene ricordato come memorabile il Congresso Internazionale di Traumatologia da lei organizzato a Firenze nel maggio del 1996. Come ebbe questo incarico?

Alla fine degli anni Ottanta, Andreasen costituì l’International Association of Dental Traumatology ed io ero tra i soci fondatori. Già al secondo congresso a Copenaghen c’era un gruppo di italiani che poi partecipò a numerosi congressi mondiali, tra cui quello di Loma Linda, dove si propose per il prossimo evento. Nel frattempo era nata la Società Italiana di Traumatologia, costituita tra gli altri dal dottor Paglia, da mia figlia Claudia e dal dottor Manna. Con questo gruppo, insieme ad altri, iniziammo a preparare il congresso al quale parteciparono più di 45 nazioni e 700 congressisti. Lavorammo sodo e preparammo anche un Manuale di traumatologia dento alveolare, un trattato di 600 pagine curato dalla Ciba.

Tra le tante passioni lei ha anche quella dello scrivere: tra i numerosi libri e articoli scientifici, quali ricorda in particolare?

I latini dicevano: scripta manent, verba volant! Secondo me, chi fa ricerca a un certo punto deve raccogliere il sapere nelle pubblicazioni scientifiche, fondamentali soprattutto per i giovani.
Negli anni Sessanta-Settanta, non esisteva un libro di odontoiatria pediatrica, né di ortodonzia.
Ricordo in particolare il volume di ortognatodonzia pubblicato con Utet: ne vendemmo a decine di migliaia di copie perché fu il libro di testo adottato per molti anni nel corso di laurea. Nel 2000 e 2001 ottenni due anni sabbatici, durante i quali raccolsi il materiale degli anni precedenti per pubblicare sia in italiano che in inglese “Ortodonzia Intercettiva”, libro di oltre 600 pagine con la prefazione del maestro Anthony Gianelly. Un altro libro importante fu quello dedicato alla patologia delle agenesie.

Ha dedicato molto spazio anche alle collane scientifiche, alle monografie, in particolare di odontoiatria infantile e ortodonzia. Perché?

Gli italiani sono un po’ pigri nello scrivere, anche se ci sono elementi validi e le scuole si sono molto sviluppate negli ultimi 20-30 anni. Negli anni Ottanta, con Masson ho pubblicato la collana di odontoiatria infantile in dieci volumi a cui hanno partecipato molte scuole. Negli anni Novanta ho pensato di creare una collana di ortodonzia che, dopo l’inizio un po’ difficoltoso, ebbe un grande successo, anche grazie all’impegno dell’editore Martina: oggi la collana è arrivata al volume 37 e dal numero 30 è diventata internazionale e bilingue.

All’inizio degli anni Novanta ha ideato la Rivista Italiana di Odontoiatria Infantile, poi trasformata in European Journal of Paediatric Dentistryb e pubblicata in inglese. Quali sono stati gli stimoli nel crearla e gli sviluppi successivi?

Mancava una rivista italiana sull’argomento. Quando ero presidente SIOI, nel 1992-93, mi venne l’idea di crearla, prima in italiano poi, inevitabilmente, in inglese, dapprima con l’editore Masson e poi con Ariesdue, che ancora ne cura la pubblicazione. Il segreto del successo fu di mandare la rivista in 600 biblioteche nel mondo: in questo modo ebbe una diffusione incredibile. L’editor divenne Giuliano Falcolini che, ormai in pensione, dedicò le sue giornate interamente alla rivista. Gli articoli arrivarono da tutto il mondo e i referee divennero internazionali. La rivista crebbe e negli ultimi quattro anni abbiamo avuto la soddisfazione di avere l’Impact Factor, unica rivista italiana di odontoiatria con questo merito. Ora l’editor è il dottor Luigi Paglia.

Durante il suo percorso professionale e accademico ha conosciuto moltissime personalità. Chi sono stati i grandi maestri che ha incontrato?

Dico sempre che un giovane deve avere la fortuna di incontrare un maestro che lo stimoli. Ricordo i miei professori a Torino, all’epoca università all’avanguardia, Dogliotti, Mottura, Amprino, e poi Silvio Palazzi e Carlo Zerosi, che mi hanno insegnato l’importanza di essere studente per tutta la vita. Ricordo anche il professor Gennari a Parma, altro maestro, così come i professori stranieri che ho già citato, che con umiltà, semplicità e affabilità mi hanno sempre aiutato. Insegnare è educare, dal latino “ex duco” ovvero “tirare fuori il meglio”.

Lei è anche un grande appassionato e cultore di storia dell’odontoiatria. Come nasce questo interesse?

Ebbi un professore di storia della medicina che mi stimolò. Un giorno poi lessi una bella frase del filosofo Auguste Comte: “Se vuoi imparare una scienza, ne devi conoscere il passato”. Ho letto moltissimi libri, per esempio Cesare Pavese che ne “La luna e i falò” insegna come una società senza memoria non ha tradizione e quindi non ha futuro.
Attualmente sto lavorando ad un libro sulla storia dell’ortodonzia italiana, perché i giovani devono capire che da questo si ricavano gli stimoli per il futuro.

Nel 2004, quando si ritirò dalla didattica, a Parma le venne concesso il saluto accademico, riservato a pochissimi. Come avvenne?

La Facoltà di Medicina dell’Università di Parma mi era molto grata perché avevo organizzato numerosi congressi e corsi di aggiornamento, facendola diventare un punto di riferimento importante. Il preside, professor Novarini, portò la proposta in facoltà dove fu approvata. L’università organizzò tre giorni di congresso a cui parteciparono come ospiti più di 100 professori, gli ex allievi e i cultori dell’ortodonzia: eravamo più di 500. In quell’occasione, nel mio discorso, ho ringraziato i miei maestri e ho dedicato spazio allo stimolo dei giovani.

Qual è il segreto? Per uno come lei di 81 anni, ancora in piena attività, con uno spirito giovanile e dinamico nell’affrontare le cose?

Credo che il segreto sia la serenità dell’animo, come afferma Seneca, che considero un grande maestro. La prima cosa è l’ottimismo che, insieme alla meditazione, stimola le endorfine, le dopamine e le neurotropine, “droghe” naturali che aiutano tantissimo. La seconda cosa è l’esercizio fisico, che io faccio sempre da 40 anni, anche diversificando l’attività. La terza è continuare a lavorare, trovando gli stimoli, non occupandosi tanto di se stessi quanto degli altri: la vera gratificazione sta nell’aiutare gli altri, soprattutto i giovani. La solidarietà ti dà molta energia. Infine la spiritualità, senza la quale oggi non si può vivere. La spiritualità ti dà una forza enorme, il saper pregare è un mantra. L’energia poi viene anche dai miei tre figli, tutti specialisti con un’ottima carriera, dai miei nipoti che mi mantengono sempre giovane, da mia moglie, vero personal trainer da quasi 50 anni, dal legame permanente col mio bel Monferrato, terra natia, e dagli amici d’infanzia.

A proposito di solidarietà… Tra le tante attività in questo senso lei ha creato la Onlus SOS Giovani. Ce ne vuole parlare?

Trent’anni fa ho avuto un’ischemia coronarica e ho avuto la fortuna di essere ricoverato nel Centro De Gasperis dell’ospedale Niguarda. Vivendo in rianimazione capisci il valore della vita. Uscito da lì, con un amico laico consacrato, con un giudice del tribunale dei minori e con altri ho creato questa Onlus legata all’attività di don Calabria. Nacque così la prima casa famiglia con sei, sette bambini in affido. Ora le case sono cinque e danno ai giovani una grande possibilità di recupero. Non dimentichiamo che sono anche “rotariano” e il nostro motto è servire gli altri al di fuori del proprio interesse.

Lei ha ricevuto moltissimi premi alla carriera. Quale ricorda più volentieri?

Si tratta di un premio che ricevetti nel 1953 dalla provincia di Alessandria perché vinsi un concorso per chi aveva i voti migliori all’università. Venni premiato con 50.000 lire e, tornato a casa, dissi ai miei genitori che avrei comprato una moto. In realtà erano tempi difficili e i soldi furono usati per comprare un frigorifero!

Come vede il futuro dell’odontoiatria, sia da un punto di vista di libera professione sia accademico, e quale messaggio vuole lasciare ai giovani?

Credo che sia sempre importante essere ottimisti. Bisogna sapersi preparare bene, scegliere le scuole migliori, andare all’estero se in Italia non si ha una preparazione sufficiente, conoscere bene almeno due lingue.
La carriera accademica è sempre più ridotta e difficile, mentre la libera professione, se vissuta in gruppo, attraverso uno studio associato, può arrivare all’eccellenza. Fondamentale poi è imparare a comunicare efficacemente con il paziente.
Insomma, non demordere, saper combattere, resistere e guardare al futuro con ottimismo.
Winston Churchill diceva: “Un pessimista vede la difficoltà in ogni opportunità; un ottimista vede l’opportunità in ogni difficoltà”.