Giancarlo Pescarmona

 

Figura eclettica, poliedrica, continua una tradizione familiare di medici.
Conosciamo Giancarlo Pescarmona, studente per tutta la vita, sempre impegnato nella ricerca di un’odontoiatria globale e razionale.

a cura di Damaso Caprioglio

Carissimo Giancarlo, mi fa molto piacere poter trasmettere la tua esperienza di vita, di scienza, di senso di umanità.
Inizierei parlando della tua famiglia e della nostra terra monferrina in cui, come me, sei nato. Come hanno influito il tuo bisnonno, tuo nonno e tuo padre nel farti conseguire la Laurea in Medicina e poi nella scelta dell’indirizzo in odontoiatria?

La mia famiglia ha condizionato le mie scelte sotto molti punti di vista.
Bisnonno, nonno e papà erano tutti monferrini, di San Damiano; io nacqui nel 1938, prima della guerra, in montagna, a Paesana, dove mio padre era medico condotto. È stato aiuto di chirurgia a Ivrea con il primario, compagno di scuola del padre di quella che sarebbe diventata mia madre, che faceva la strumentista in sala operatoria. Come da tradizione per quell’epoca, papà si innamorò della strumentista e la sposò nonostante venisse ostacolato dal primario, che all’annuncio delle nozze sentenziò:
“L’aiuto sposa l’ospedale, non la strumentista”. Entrambi lasciarono l’ospedale e andarono a vivere in montagna, a Paesana! Queste decisioni, apparentemente banali, sono quelle che, crescendo, ti servono come esempio per capire che nella vita puoi decidere al meglio se vai dove ti porta il cuore.
A Paesana rimasi fino all’incendio del paese nel 1944, per rappresaglia, e quindi tornai a San Damiano, porto sicuro per una famiglia fortemente provata dalla guerra. Lì il destino fece incontrare a mio padre una signora che aveva un bambino della mia età, moglie di un dentista partito per la Russia, che gli propose di aiutarla, essendo lui medico e avendo lei la disponibilità dello studio del marito.
Andando indietro con gli anni, ricordo che quando decisi di partire per Ginevra, andai a salutare mio nonno, allora 85enne, il quale mi congedò con un “buona fortuna”, senza chiedermi dove andassi e a far cosa: sapeva che dovevo
fare quella scelta a trent’anni, così come lui aveva fatto nel 1902 partendo per Parigi per la specialità di ostetricia.
Il mio bisnonno, invece, si alzava alle cinque del mattino per spaccare la legna e poi partivana cavallo per le visite. Acquistò l’ultimo cavallo all’età di 80 anni e riuscì anche a domarlo!
I miei avi mi hanno trasmesso non solo il senso della medicina – da loro ho imparato che il paziente deve essere sempre al centro dei pensieri del medico – ma anche un profondo senso del dovere e del sacrificio.

Al liceo conosci una ragazza che diventerà tua complice fondamentale e che sposerai nel 1965. Vuoi parlarci dell’influenza che tua moglie ha avuto nella tua vita?

Mia moglie era compagna di scuola di mia sorella al liceo di Asti, ambiente rigido e severo, ma con dei lati di umanità tipici della provincia.
La nostra storia cominciò durante una gita scolastica a Venezia. Ci univa la medicina (lei infatti ha studiato farmacia), ma avevamo caratteri opposti: io un po’ sognatore, matto, giramondo, lei molto quadrata, solida. Quest’anno festeggiamo i 50 anni di matrimonio più 7 di fidanzamento!

Dopo la Laurea in Medicina e già iniziata la specialità a Genova, hai sentito l’impulso di perfezionarti ulteriormente: come mai hai scelto Ginevra?

La storia è sempre quella di tenere ben dritte e aperte le orecchie! Incontrai per caso alcune persone di ritorno dalla clinica odontoiatrica di Ginevra, Paolo Zino e Antonio Pozza, mi fermai a parlare con loro e mi si aprì un mondo che non conoscevo. Fino ad allora infatti sapevo solo dei corsi che mio padre aveva fatto con Biaggi e Castagnola relativamente alla protesi totale.

Come è stato preparare la Laurea a Ginevra e poi fermarti lì come assistente per tre anni?

Prima di tutto lì ho capito che l’odontoiatria era una branca medica, un “artigianato biologico” che dava il vantaggio di lavorare su un supporto biologico che reagisce, vede, capisce e si adatta, al contrario di un supporto meccanico, che si rompe. A Ginevra poi mi ha stupito e impressionato che ognuno di noi avesse un posto in laboratorio e un posto nella clinica, dove tutto doveva esser pulito e in ordine.

Sei stato negli stessi anni anche all’università di Zurigo, conoscendo docenti molto validi tra cui Castagnola e Biaggi. Quando hai iniziato a frequentare il gruppo degli Amici di Brugg?

Al Congresso Amici di Brugg di Saint Vincent. Credo di essere l’unico tra gli Amici di Brugg a non essere stato a Brugg: ho conosciuto i fondatori dell’associazione, Carlo De Chiesa e Bubi Biaggi, rispettivamente a Ginevra e a Losanna, per caso, mentro ero a sciare a Courmayeur. Mi hanno subito preso in simpatia...

Come è cresciuta nel tempo l’associazione Amici di Brugg?

All’epoca creammo una miscela da molti considerata esplosiva: l’aggiornamento di dentisti e odontotecnici insieme. Questo ci portò un mare di critiche. Prima di tutto volevamo parlare ai colleghi dentisti in trincea tutti i giorni e agli odontotecnici, considerandoli le pedine di una stessa partita a scacchi. Poi abbiamo capito che i fornitori erano la scacchiera e abbiamo creato una mostra, e poi la TV con la diretta… Ma c’è stato sempre un solo punto di riferimento: il dentista, che veniva a Rimini una volta all’anno per scoprire le novità e vedere i materiali, gli strumenti, magari per cambiare il riunito.
Col tempo abbiamo poi fatto intervenire anche le assistenti e gli igienisti: il mio sogno era quello di creare un palazzo in cui tutti potessero studiare insieme, una grande famiglia dove i rapporti umani fossero fondamentali, rapporti veri, quelli che si creano solo a scuola.

A un certo punto hai sentito il bisogno di frequentare altre università come Los Angeles, Boston, Philadelphia, Göteborg. Qual è stata la tua esperienza e cosa ti ha colpito di più?

L’America per me rappresentava la tecnologia, la ricerca, il domani… Il vero insegnamento americano fu comprendere che il dentista nella pratica quotidiana poteva fare qualcosa di più: ho apprezzato la “superspecialità”, il fatto di poter andare oltre. Ho fatto mio il detto: “Sappi tutto in modo completo e agisci in modo specifico”.

Hai avuto anche rapporti notevoli con l’università della Borgogna, in particolare di Digione, diventando anche insegnante. Qual è stata l’utilità di questi scambi?

È stato molto utile e per me facile, avendo il francese come seconda lingua madre. Sono andato lì per un aggiornamento e mi hanno chiesto di rimanere. È stata un’esperienza bellissima perché ho fatto il professore e allo stesso tempo lo studente e chi ha avuto i maggiori vantaggi dai corsi che ho tenuto sono stato proprio io!

Quando è avvenuto l’incontro con Carlo De Chiesa? Cosa ti ha colpito di lui e ti ha spinto a lasciare Ginevra e Asti e ad approdare a Saluzzo?

Ho conosciuto Carlo De Chiesa a Ginevra, nella mia scuola, dove ero in contatto con i fondatori della parodontologia, Held e Chaput. Ho scoperto che avevamo molto in comune, amici, cugini, compagni di scuola delle rispettive sorelle: parlavamo, per così dire, lo stesso linguaggio e incontrandoci ci siamo trovati a casa. Al termine di una sua conferenza che venne mal tradotta, mi chiese di andare a Losanna, dove avrebbe tenuto la stessa relazione e dove ci sarebbe stato anche Biaggi. Quello che di lui mi colpì in particolar modo era la precisione nel lavoro: diceva che non era ammissibile fare più di un ritocco, altrimenti il lavoro andava rifatto. Andai poi a trovarlo a Saluzzo dove aveva dei laboratori con tecnici molto validi: per me fu un ritorno a casa.

Come avete avuto l’idea di creare nel 1971 un Centro Studi Odontoiatrici?

Direi che l’idea è venuta da sola, spontaneamente, senza che venisse sottoscritta alcuna regola: lui comprendeva le mie necessità e io avevo di lui il massimo rispetto.

Hai sentito a un certo punto la necessità di creare l’Accademia Italiana di Conservativa e l’Accademia Europea di Gnatologia: quale lo stimolo? Erano gli anni Settanta, anni molto bui…

L’Accademia di Gnatologia è nata a Ginevra con Carlo De Chiesa perché un buon gruppo di ginevrini faceva parte della scuola di Peter Thomas, uno dei più grandi gnatologi dell’epoca. L’Accademia di Conservativa ha invece un’altra storia. Avevamo proposto al Congresso degli Amici di Brugg di dedicare una mezza giornata alla conservativa per i giovani, ma ci dissero di no. Allora, insieme con Fabio Toffenetti, la proposi all’AIOP, ma anche lì ci furono dei problemi… Dopo una chiacchierata tra noi in giro per Bologna alle due di notte, decidemmo di fondare l’Accademia di Conservativa, in modo del tutto indipendente.

Come si sviluppa poi questo legame particolare con Fabio Toffenetti? E come nasce il “Manuale di Conservativa”, un eccellente libro che ha avuto successo ed è stato di grande utilità per decenni?

È una storia nata spontaneamente, frequentando i congressi degli Amici di Brugg dove Fabio parlava di conservativa. Io venivo da una scuola di conservativa e Biaggi, che aveva grande intuito, ci propose di occuparci insieme di questa specialità per gli Amici di Brugg. Fabio era più strutturato, più razionale, più “lettore” di me. Insieme siamo stati a Boston e insieme, con le nostre famiglie alle spalle, abbiamo vissuto la nostra professione.

Quali rapporti hai avuto con Peter Thomas e qual è il messaggio che ci ha lasciato questo grande uomo?

Era un grand’uomo, con una manualità incredibile.
Io sono stato nel suo studio e lui era geniale, risolveva dei casi impressionanti, aveva una personalità straordinaria. Lavorava a Beverly Hills, un posto che gli ha permesso di fare cose eccezionali, lavori molto estetici, ceramiche bellissime: i pazienti erano tutti gli attori di Hollywood, per esempio Gary Cooper e Marilyn Monroe.
È venuto a Saluzzo invitato da Carlo De Chiesa e ha lavorato in mezzo ai pastori e ai contadini, facendo le stesse cose di Beverly Hills: rimanemmo scioccati! Con Peter mi si è aperto un mondo, ho compreso quanto fosse complesso il sistema stomatognatico.

Credo che per te sia fondamentale quello che in fondo ti hanno insegnato in Svizzera, cioè l’importanza di saper tramandare agli altri. Qual è stata la spinta che ti ha portato a donare tantissimo la tua esperienza, spesso in modo gratuito, sia in Italia che all’estero?

L’ho fatto senza saperlo, probabilmente l’ho nel DNA, è stato l’esempio dei miei avi medici. Non ho mai pensato a un ritorno di quanto davo, ma il ritorno c’è stato: ringraziamenti di persone a cui avevo cambiato il modo di lavorare!

Hai sempre curato molto la solidarietà, in particolare a San Patrignano. Cosa ti ha spinto e ti spinge a farti prossimo?

Credo che arrivati a un certo punto della vita bisogna andare oltre, cambiare qualcosa di te: io l’ho fatto con san Patrignano.

Tu hai due convinzioni nella vita che vorrei tu dicessi personalmente, perché sono molto utili, specie per i giovani.

“Appeso all’apice di un dente c’è sempre un uomo”. Questo è stato l’insegnamento trasmessomi da André Marmasse e significa tener sempre conto del paziente di fronte a ogni trattamento.
Mi sono poi assunto un impegno morale: avere sempre ogni anno un paziente da curare gratis, ma senza farglielo capire, facendogli pagare una cifra irrisoria. “Vai dove ti porta il cuore” è poi il motto che  ho sempre fatto mio, che mi hanno insegnatoi i miei genitori.

Qual è dunque in sostanza il messaggio che vuoi lasciare ai giovani odontoiatri?

Di svolgere la professione con lo spirito con cui si dovrebbe sempre svolgere una professione sanitaria. Il paziente non è un cliente, il rapporto con lui deve essere di convivenza: se lui ha problemi sistemici, comportamentali, di qualsiasi tipo, devi prenderlo sotto braccio e aiutarlo a guarire. Se il rapporto è di convenienza, è meglio cambiar mestiere.

Grazie Giancarlo. Chiudo con una massima di Lucio Anneo Seneca: “Si vis amaris, ama”, se vuoi essere amato, sii tu il primo ad amare.