Giulio Preti

Caro Giulio, iniziamo dai tuoi anni giovanili, in cui hai vissuto momenti di grande difficoltà a causa della guerra in corso. Quanto ti hanno forgiato il carattere?

Penso che mi siano serviti moltissimo perché è attraverso le difficoltà che si forma quel carattere che non dà nulla per scontato e che ti dà la forza per superare i momenti difficili. Per tutta la vita non mi sono mai arreso di fronte ai problemi, ma ho sempre cercato la soluzione. Ho avuto anche molte delusioni, ma non mi hanno mai fermato.

A quei tempi tutti i tuoi fratelli maggiori lavoravano già con i tuoi genitori e ciò ti permise di studiare. Quali ansie e preoccupazioni ti creava il sapere dei loro sacrifici?

È una valutazione che ho dato a posteriori. Lì per lì non ci pensavo, poi ho riflettuto sulla loro grande generosità: è stato un segno di affetto che, purtroppo, ho riconosciuto troppo tardi.

Dopo i primi anni all’università di Genova, hai avuto la fortuna di passare gli ultimi presso quella di Torino, che anch’io frequentavo nello stesso periodo e dove ho conosciuto dei maestri, docenti meravigliosi e indimenticabili. Quanto hanno influito la difficoltà di quegli anni, la durezza degli esami, il messaggio e l’insegnamento di quei maestri?

A Genova seppi da un mio compagno che a Torino c’era la possibilità di entrare come allievo interno all’Ospedale Mauriziano, che accoglieva dodici studenti, dando loro vitto e alloggio e richiedendo un impegno totale: durante il giorno si era occupati nei vari reparti, mentre la sera si studiava. In ogni reparto si rimaneva per tre mesi, a rotazione, e fu in questa rotazione che conobbi il professor Costa, un grande endocrinologo, che non volli mai più lasciare. Contrattando con gli altri allievi, riuscii a rimanere con lui un anno e per me fu una grandissima scuola, forse quella che mi formò maggiormente. Il professor Costa era veramente un maestro, ti faceva sentire parte di una squadra. Ho poi trasferito il suo insegnamento nella scuola che ho fondato al mio ritorno da Zurigo.

Dopo la Laurea in Medicina a Torino, tu volevi veramente imparare l’odontoiatria e con grande coraggio sei partito senza mezzi, senza conoscere la lingua tedesca, per Zurigo, presso quella che in quegli anni rappresentava la miglior clinica odontoiatrica europea. Puoi parlarci di quegli anni? Di come poi hanno influito sul tuo modus vivendi?

Anche a Zurigo trovai davvero grandi esempi di etica, di dedizione all’insegnamento. Avevano appena costruito la nuova Dental School, dove c’erano solo dieci allievi. La difficoltà riguardava soprattutto la lingua tedesca: di sera insegnavo l’italiano a uno studente di teologia tedesco e lui mi dava lezioni della sua lingua, così pian piano imparai…
Mentre i docenti italiani di allora erano baroni, inarrivabili per un allievo, a Zurigo invece c’era il contatto quotidiano con maestri noti in tutto il mondo: la città svizzera negli anni Sessanta era l’Oxford dell’odontoiatria. Ho cercato poi di riportare questi esempi a Torino, nella mia scuola.

In quegli anni difficili a Zurigo hai trovato però la forza dell’amore, sposando la tua meravigliosa Liliana. Lei ha certamente rappresentato un punto fermo per tutta la tua vita. Qual è stato l’aiuto che ti ha dato in quel periodo e negli anni a seguire?

In realtà c’è stato un momento in cui non volevo più sposarmi perché mi ero autodiagnosticato il morbo di Hodgkin e pensavo di dover morire a breve. Quando mi arrivò la lettera con la diagnosi, io e Liliana decidemmo però di stracciarla e di sposarci comunque. Senza mia moglie non avrei certamente fatto carriera: lei si è occupata di tutte le incombenze della vita quaotidiana, lasciandomi libero di dedicarmi a tutte le cose che mi piacciono.

Eri già docente a Zurigo quando ti è stata offerta la possibilità di tornare a Torino, senza tra l’altro nessuna certezza di proseguimento di carriera. Che cosa ti ha dato il coraggio e la forza di tornare?

Liliana voleva tornare a casa. E col senno di poi non posso dire di essermene pentito.

Nella tua didattica hai avuto un approccio tutto particolare, quello che tu definisci il “concetto di squadra”. Mi vuoi parlare dei tuoi allievi che, oltre che le lezioni del mattino, frequentavano poi lo studio al pomeriggio fino a sera tardi, impegnandosi con grande passione in ricerche di innovazioni?

Praticamente io non ho fatto le scuole medie, avevo in mente solo il calcio. Quello che però sembrava tempo perso nel gioco del calcio è stata in realtà la chiave di volta della mia vita perché ho capito che solo attraverso il gioco di squadra si può costruire qualcosa. Non solo avevo la mia squadra di studenti, ma imponevo a ciascuno di loro di averne una propria: le squadre dunque si moltiplicavano e abbiamo costruito tanto, tutti insieme. Ho cercato di trasferire in questi gruppi l’idea che un professore universitario lo è fino in fondo quando accetta il confronto: io ho imparato moltissimo dai miei allievi.

Le tue ricerche si sono poi allargate a livello internazionale, ampliando molto il campo della protesi e procurandoti fama nel mondo grazie ai continui scambi. Quale motivo ti ha spinto in questa direzione?

Erano gli anni Ottanta e cominciavano a diminuire i rapporti con Zurigo. Io volevo però conoscere il mondo anglosassone. Avevo, allora, una cultura odontoiatrica mitteleuropea e pertanto mi misi a studiare l’inglese per due anni durante la pausa pranzo. Poi fui introdotto a Los Angeles e lì partecipai a seminari, conobbi persone con cui ci fu subito empatia e nacquero amicizie che durano tutt’oggi. Tutto il gruppo mi ha poi seguito nei congressi internazionali, dove abbiamo ricevuto anche riconoscimenti prestigiosi.

Ad un certo punto della tua vita credo tu abbia avuto un messaggio, uno stimolo, intuendo che fosse il momento di costruire una Scuola, una grande clinica italiana. Hai saputo superare enormi difficoltà, ma la tua caparbietà, la tua determinazione e il tuo ottimismo hanno saputo superarle. Quale è stata la molla che ti ha permesso di riuscire in questa grandiosa impresa?

Avevo l’esempio di Zurigo dove l’odontoiatria era recepita, sia dal punto di vista dell’insegnamento e della didattica, sia da quello professionale, in modo del tutto diverso rispetto all’Italia. Quando manifestai la necessità di una scuola perché i tempi stavano cambiando, sorsero dubbi perché si tendeva a confondere sempre l’istituzione con la libera professione. Poi insistendo… La prima cosa che feci fu quella di pensare a un reparto “modello” e convinsi l’amministrazione universitaria a sistemare la parte dei muri; però poi non avevo i soldi per comprare le attrezzature e mi rivolsi a Zandano, direttore dell’Istituto Bancario San Paolo di Torino, e alla fine, grazie anche all’intervento di Andreotti, ebbi il denaro necessario.

Vorrei ora sottolineare la grande humanitas e humilitas di Giulio Preti, il suo portare avanti il concetto di solidarietà non solo tra gli studenti, ma verso chi ha maggiormente bisogno. Questo tu l’hai saputo fare e hai creato all’interno della clinica uno spazio per seguire le comunità svantaggiate, aiutando la COI (Cooperazione Odontoiatrica Internazionale). Ce ne vuoi parlare?

Quando ho pensato alla scuola, ho pensato anche di trovare uno spazio per la COI che stava portando avanti un grande lavoro. Dedicarsi alla solidarietà internazionale avrebbe nobilitato anche l’università. Il mio obiettivo era portare la solidarietà all’interno dell’università, a contatto con gli allievi.

Hai scritto libri meravigliosi, volumi tecnici utili alla professione. Poi hai scritto “L’albero delle Giuggiole”, che rappresenta la sintesi della tua vita. Quale messaggio dai con questo libro?

Ho una grande nostalgia di quel mondo descritto nel libro: erano anni difficili, ma per me bambino “naturali”, perché non c’era un altro mondo con cui confrontarmi. Sono ancora legato ai compagni di scuola e di infanzia da un grande affetto.

“L’arte perduta di guarire” di Bernard Lown è un libro che amiamo entrambi. Cosa ti ha dato?

Bernard Lown sostiene che la medicina si fonda su due pilastri: la scienza e l’arte del guarire, quel rapporto empatico che il medico deve avere col malato. Senza questo tipo di rapporto, la scienza non funziona. L’autore afferma anche che nel momento in cui la medicina è diventata così tecnologica, in cui l’uomo è considerato una macchina che guarisce grazie ai medicinali più sofisticati, il prestigio del medico è andato degradando. Come rimediare? Se il medico avrà nuovamente il suo ruolo di guaritore, se la medicina tornerà più umana, se a fianco di quella tecnologica ci sarà la medicina psicosomatica.

Un messaggio ai giovani: tu parli di doppia faccia della crisi, che è anche opportunità per ricominciare…

L’ho sempre pensato: è nei momenti bui, quando pensi di aver toccato il fondo, che inizi a risalire: ciò ti dà la forza per trovare le soluzioni adeguate.

 

Grazie Giulio, soprattutto per questa amicizia che dura da 60 anni!

“Il ferro affina il ferro e l’amico affina l’amico”
Siracide