Roberto Brusati

Carissimo Roberto, innanzitutto grazie per la disponibilità. Vorrei iniziare parlando delle tue origini, della tua famiglia e della tua gioventù…

Grazie a voi per avermi inserito tra i grandi maestri dell’odontoiatria.
Sono un Milanese doc, infatti sia i miei genitori che i quattro nonni sono nati a Milano. Questo è anche il motivo per cui da Parma, dove mi trovavo benissimo e lavoravo in una clinica splendida, ho preferito tornare a Milano, dove non c’era nulla. Ho sentito il richiamo della mia terra.

Perché hai scelto Medicina, poi Odontostomatologia e, infine, Chirurgia plastica ricostruttiva?

Perché negli anni della gioventù, durante le visite di controllo dal dentista, un giovane medico, il dottor Maccaferri, mi parlò della chirurgia maxillofacciale, una disciplina in fieri in cui suo padre si era affermato a Bologna negli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta. La cosa mi intrigò e il mio interesse per il volto nacque lì: a 18 anni già sapevo di voler fare Medicina e in particolare la chirurgia che riguardava la faccia. Non essendoci una specialità specifica, mi specializzai nelle due discipline più affini: l’odontostomatologia, che si riferiva prevalentemente allo scheletro, e la chirurgia plastica, che riguardava la riparazione delle lesioni delle parti molli.

Vi sono stati dei maestri in questi primi anni che ti hanno particolarmente stimolato e motivato?

Tutti quelli che considero maestri hanno acceso in me un entusiasmo particolare. In primis il professor Rusconi, a Parma, che è stato un maestro e un padre perché passavo più ore con lui che con mio padre e avevamo hobby in comune, come la pesca e la caccia. Lui mi portava spesso con sé nelle bellissime tenute nel pavese e nel modenese: un’occasione, per un giovane neolaureato, di conoscere personaggi importanti.

Perché ti sei trasferito a Parma nel ’67?

Perché da giovanissimo avevo già un approccio scientifico ai problemi. Ho fatto un’indagine di mercato e ho capito che a Parma c’erano le condizioni per sviluppare una discilplina che non c’era ancora.

Düsseldorf e Zurigo, due fari in Europa in quel periodo. Quali i tuoi maestri e le frontiere che ti hanno aperto?

Düsseldorf è stata l’America della chirurgia maxillofacciale. Venivo da Parma, dove avevamo letti in pronto soccorso e usavamo le sale operatorie di altri reparti; a Düsseldorf c’erano 60 letti e tre sale operatorie per la chirurgia maxillofacciale. Per me è stato davvero il top. C’era una gamma di patologie incredibile: dalle malformazioni ai traumi, ai tumori craniofacciali, con una casistica numerosissima. Un bagno di scienza e di clinica. Inoltre, lì in Germania, gli assistenti avevano lo spazio per lavorare, anche se ho trovato una mentalità che mi faceva sorridere: una totale mancanza di spirito critico e, di contro, un’assoluta rigidità nel seguire le regole.

Parlami invece di Zurigo…

La clinica di Zurigo era l’avamposto della chirurgia maxillofacciale, soprattutto di tipo dismorfico. Se ne occupava il professsor Obwegeser e, nell’ambito della sua organizzazione, la chirurgia delle malformazioni congenite, come le labiopalatoschisi, era affidata al professor Perko, sotto il quale anch’io ho imparato moltissimo.
Con Obwegeser ho sviluppato un’amicizia basata sull’hobby della pesca: lui mi invitava ad andare in Scozia, un’esperienza che ripetevamo tutti gli anni, oppure io lo invitavo in Italia a caccia. Da questi incontri sono nate anche cariche ististuzionali: per esempio, sono diventato tesoriere e consigliere della Società Europea di Chirurgia Maxillofacciale a trent’anni grazie alla pesca, non alle mie doti di chirurgo maxillofacciale!

Parlami della tua carriera ospedaliera e universitaria a Parma e delle difficoltà per creare la tua eccellente unità operativa.

Non ci furono mai difficoltà particolari perché io feci scelte molto chiare: rinunciai alla direzione di Odontoiatria che mi era stata proposta perché il mio interesse era un altro, io volevo essere un chirurgo maxillofacciale. Lasciai dunque il posto al professor Gennari che mi ripagò non ostacolandomi nella mia successiva affermazione. Inoltre avevo un ottimo rapporto con l’amministrazione dell’ospedale che, valutando le esigenze assistenziali, mise in piedi un’unità operativa di primissimo livello.

Tra le varie specialità di cui sei maestro, la prima riguarda le gravi e grandi malformazioni craniofacciali. È quella che più ha inciso nel tuo animo, tanto da trovarla sempre attuale e stimolante. Ce ne vuoi parlare?

Nel mio iter clinico, il primo settore con cui mi sono interfacciato è stata la traumatologia, la palestra per ogni chirurgo maxillofacciale. Poi mi sono orientato verso la chirurgia dismorfica e, infine, mi sono sdoppiato: da una parte le malformazioni congenite (labiopalatoschisi), dall’altra le grandi ricostruzioni, lavorando in équipe con gli otorini.

L’altro settore riguarda la chirurgia ortognatica: come e quando l’hai iniziata e poi sviluppata?

L’ho iniziata con il professor Rusconi, un vero pioniere insieme a Maccaferri.
Con Obwegeser poi, che aveva una tecnica a tutto tondo, non c’erano limiti alla chirurgia, si agiva sul mascellare inferiore, sulla mandibola, sagittalmente, trasversalmente, in più frammenti. La stretta integrazione tra ortodontisti e chirurghi è nata negli Stati Uniti, dove comunque non è stata inventata alcuna tecnica, sono nate infatti tutte in Europa, in Germania, Francia e, in particolare, in Svizzera.

Talmant cosa ti ha lasciato?

Un grandissimo interesse per il razionale che sta sotto ogni intervento ricostruttivo, precisione e razionalità nell’approccio, pianificazione accuratissima ed esecuzione magistrale.

Infine, il settore dell’oncologia e del distretto maxillofacciale. Hai iniziato anche una collaborazione in sala operatoria con il neurochirurgo, perché?

Perché era il momento in cui Tessier aveva dimostrato che si può aprire la scatola cranica e farla comunicare impunemente con le cavità nasali. Questo permetteva di correggere spazialmente delle anomalie caratterizzate da alterazioni sia craniche, sia facciali. A partire da questo approccio, caduto il tabù, è stato possibile operare tumori e malformazioni: si è aperto un orizzonte incredibile!

A Milano hai creato un centro di riferimento regionale per le labiopalatoschisi e hai potuto espandere ancora di più il tuo concetto di team.

Premetto che anche a Parma avevo creato un centro regionale per le labiopalatoschisi: a Milano ho fatto la stessa cosa. Il centro regionale è l’obiettivo per il trattamento di questi pazienti. Non è possibile infatti che un paziente venga operato in un ospedalino dove fanno due interventi del genere all’anno. Il centro di eccellenza è caratterizzato da un alto volume operatorio e da una visione multidisciplinare del problema. Nello stesso posto il paziente trova tutte le competenze: chirurgo, ortodontista, logopedista, otorino, psicologo, genetista…

Sei sempre stato un grande pioniere e non solo nelle tue specialità, ma anche per il rapporto stretto e continuo che hai saputo stringere con tutti gli altri specialisti delle branche affini, cercando sempre l’eccellenza del tuo lavoro. Perché?

Perché se vuoi l’eccellenza devi attingere alle competenze massime. Ognuno deve conoscere i propri limiti e sfruttare le competenze degli altri.

Hai saputo educare (dal latino ex ducere: tirar fuori il meglio) i tuoi allievi, mettendoli in cattedra nei primariati. Ti senti gratificato? Hai riconoscenza?

Sì, sono molto gratificato dall’aver formato tutte queste professionalità. Il mio obiettivo è stato sempre di farli uscire dal nido e volare rapidamente con le loro ali…

Roberto Brusati ha realizzato un intervento forse unico al mondo, che pochi conoscono, applicando una tecnica indiana per la ricostruzione di un naso in un paziente nato privo dell’organo…

Una decina d’anni fa mi è capitata una bambina marocchina nata in Italia completamente senza naso. Mi sono documentato con la pochissima letteratura esistente e ho effettuato un intervento con un’antichissima metodica indiana, utilizzando un lembo frontale e degli espansori. Con un paio di interventi ho ricostruito la piramide nasale e la perforazione delle coane.

Ti occupi molto di solidarietà. Mi vuoi parlare dell’Operazione Smile Italia e della Smile House?

Sono tanti anni che partecipo a missioni umanitarie all’estero con Operation Smile Italia, costola di Operation Smile International, onlus americana nata nel 2002 che assiste in tutto il mondo bambini con tali malformazioni. Sono stato in India, Giordania, Venezuela, Guatemala… Con il dottor Scopelliti, direttore scientifico dell’organizzazione in Italia, è nata l’idea di creare un centro di eccellenza facendo una joint venture tra l’ospedale e Operation Smile Italia. L’ospedale mette a disposizione i letti, le sale operatorie, l’assistenza pre e post operatoria; Operation Smile mette a disposizione la segreteria, determinate apparecchiature e un certo numero di borse di studio per logopedisti, chirurghi eccetera.
Inoltre, tramite il Rotary di Tunisi, sono stato volontario in Tunisia, dove vengono riuniti alcuni professionisti nell’ambito di una missione internazionale per operare nell’arco di una settimana un centinaio di bambini. Si creano così dei legami: grazie alla collaborazione del Rotary, alcuni medici tunisini vengono in Italia per degli stage di un mese, e lo stesso succede con il Kosovo.
Con un’altra associazione italiana sono stato anche in Bielorussia.

Sei anche cultore della storia della medicina. Quale periodo prediligi e quali testi?

Non sono proprio un cultore… Ho dei testi bellissimi che mi sono stati regalati dai miei allievi. La mia passione vera sono invece i quadri, i dipinti dal Seicento ai primi del Novecento. Una passione che mi è stata tramandata da mio padre.

Sei sempre un professore diversamente giovane con una grande attività sportiva. Quali i tuoi sport preferiti?

A suo tempo, preferivo il tennis. Ora pratico ancora lo sci, con una certa soddisfazione e un certo stile, e gioco modestamente a golf.

Quale messaggio vuoi lasciare ai giovani e in particolare a quelli che si avvicinano alla medicina?

Seguire la propria passione. Nell’ambito della medicina trovare una branca che susciti interesse tale per cui il proprio piacere diventi poi il piacere della collettività che riceve la prestazione. Io credo poco allo spirito missionario, credo invece che sapere sfruttare l’egoismo a fin di bene possa appagare l’egoista e la collettività.

 

Ringrazio il professor Brusati e chiudo ricordando i tanti sorrisi che lui ha saputo dare a tanti bambini, parafrasando il regista di Schindler’s List: “Chi dona un sorriso a un bambino, dona un sorriso al mondo”.