La responsabilità extracontrattuale del dentista

Illustrazione di Luca Ortello

La prima sezione del Tribunale di Milano è tornata in data 18 settembre 2014 a pronunciarsi sull’attualissimo e delicato tema della responsabilità medica.
La sentenza n.11171 conferma un orientamento giurisprudenziale dei giudici di merito sempre più incline a guardare con favore alla tesi della responsabilità extracontrattuale del medico, laddove manchi un contratto d’opera professionale tra medico e paziente, e in questo caso particolare del medico odontoiatra.
Il contrasto con la costante opinione avversa espressa dalla Corte di Cassazione, residuale prima dell’introduzione del cosiddetto decreto Balduzzi, è invece emerso prepotentemente a seguito dell’interpretazione dell’art. 3 della legge di conversione di detto decreto (L.189/2012) effettuata da numerosi tribunali, primo fra tutti da quello di Milano.
Il punto di svolta risiede nel fatto che mediante l’introduzione delle norme previste dal decreto legge 13 settembre 2012 n.159, cosiddetto decreto Balduzzi, e soprattutto attraverso le modifiche ad esso apportate in sede di conversione in legge, avvenuta il giorno 8 novembre 2012 con la legge 189, il Legislatore ha inteso incidere sul tema della responsabilità medica in generale, scalfendo, per fini e in ambiti diversi, quelle che erano le incrostazioni maturate nel tempo e consolidatesi ad opera di una giurisprudenza incline, a far data dalla nota sentenza della Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione n. 589 del 22 gennaio 1999, a tralasciare quando non a incidere direttamente sul dettato normativo.
Attraverso questa nota sentenza, la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione avvide nelle relazioni intercorrenti tra pazienti e medici, nell’ambito del servizio erogato dal sistema sanitario nazionale, e comunque per estensione in ogni occasione in cui il medico entrasse in contatto per motivi professionali con l’assistito, i prodromi di una responsabilità contrattuale, nascente, per l’appunto, dal contatto instauratosi tra le due parti e corroboratosi con l’affidamento che il paziente nutre nei confronti del medico, e del sanitario in generale, affidamento per lo più necessitato dal fatto di essere, all’interno di un sistema mutualistico quale quello italiano, quasi inevitabilmente “costretto”.
Nell’argomentare tutto ciò, stravolgendo la tradizionale giurisprudenza previgente, la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione incappò in tutta una serie di critiche e censure, che, pur tuttavia, non riuscirono a far sì che il discutibile indirizzo mostrato dalla Corte Suprema si consolidasse anche nella giurisprudenza di merito e sussistesse perfino oggi nonostante che, a seguito dell’ intervento normativo citato, esso debba ritenersi definitivamente superato, come anche non hanno mancato di far notare alcune recenti sentenze in materia dei tribunali di Milano e Varese.
Per prima cosa la decisione della Corte Suprema evidenzia un atteggiamento, purtroppo sempre più presente e pressante da parte degli organi della magistratura, volto ad intervenire in materie riservate al giudizio e all’opera del Legislatore.
Appare evidente che la Corte, sul presupposto di pretese carenze nella tutela del paziente vittima di colpa medica, abbia voluto incidere in detta materia in sostituzione del Legislatore, non limitandosi ad offrire una, già di per sé discutibile, interpretazione giurisprudenziale del dettato normativo, ma, al fine di giustificare le proprie conclusioni, ha creato una vera e propria finzione giuridica a livello giurisprudenziale e al di fuori di ogni regola dell’ordinamento vigente, finzione giuridica che, tra l’altro, non trova la sua naturale ragion d’essere nell’esigenza di dare certezza a rapporti giuridici venutisi ad instaurare in situazioni di incertezza, ma si limita all’introduzione di un concetto, quello di “contatto sociale” al fine di trovare un modo per applicare la normativa regolante la responsabilità contrattuale ad una fattispecie diversa.
La contraddittorietà di questa sentenza emerge chiaramente laddove essa, peraltro consapevolmente, stravolge il contenuto e il concetto stesso di responsabilità contrattuale (anche se è vero che essa sembra indicare con la definizione di responsabilità da “contatto sociale” una terza via per la responsabilità civile o, al limite, sembra trovare in questa costruzione motivi sufficienti a individuare in essa uno degli indeterminati motivi idonei a produrre obbligazioni nell’ordinamento giuridico, tuttavia poi nella regolazione dei fatti concreti la giurisprudenza applica per i risarcimenti, e non potrebbe fare altrimenti, le regole della responsabilità contrattuale, non esistendo altra possibilità, una volta esclusa la responsabilità aquiliana).
Non si tiene in nessun conto che, come ammette la Corte stessa, il paziente non può pretendere la prestazione, indice che il contratto non si è in alcun modo concluso, che manca qualsiasi corrispettivo in quanto, all’interno del sistema del servizio sanitario obbligatorio così come in quello delle cliniche private convenzionate e non (quando il medico sia dipendente della struttura e non agisca in qualità di libero professionista o socio della stessa)non è al medico ma alla struttura che viene versato il pagamento, il quale, tra l’altro, non costituisce nemmeno, per la struttura pubblica o convenzionata, corrispettivo della prestazione ricevuta ma è un importo diretto a coprire altri tipi di oneri, mentre l’onere nascente dall’intervento è coperto per lo più dalla fiscalità generale.
Inoltre manca la sinallagmaticità della prestazione per l’ovvia mancanza degli elementi caratterizzanti.
Nel sistema italiano, poi, per la maggior parte il rapporto medico-paziente non è incentrato sulla libertà e autonomia negoziale tipica del rapporto contrattuale, ma è mediato dal filtro della struttura sanitaria, la quale instaura un rapporto obbligatorio con il medico, obbligazione che è alla base del suo facere, e che pertanto il medico è tenuto ad intervenire per rispettare l’obbligazione assunta, oltre che il giuramento di Ippocrate, ma non per dar corso ad un contratto, così che è evidente che il medico potrà essere chiamato in causa per i primi due motivi, ma non per il terzo.
Nonostante tutto quanto sopra detto si è resa necessaria l’entrata in vigore della legge 8 novembre 2012 n. 189 per far sì che la giurisprudenza di merito si interrogasse sulla necessità di incidere, una volta per tutte e grazie allo spunto offerto dal Legislatore, sul concetto di “contatto sociale” e tornare, anche se non unanimamente, ad applicare alla materia del rischio sanitario la responsabilità extracontrattuale che meglio gli aderisce. La legge 8 novembre 2012 n. 189, in particolare all’articolo 3.1 prevede che “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo” e sostituisce il testo precedentemente stilato nel decreto legge 13 settembre 2012 n.159 che così recitava: “Fermo restando il disposto dell’articolo 2236 del codice civile, nell’accertamento della colpa lieve nell’attività dell’esercente le professioni sanitarie il giudice, ai sensi dell’articolo 1176 del codice civile, tiene conto in particolare dell’osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale e internazionale”.
Già dal susseguirsi di queste due disposizioni, e dall’analisi dei lavori parlamentari che stanno alla base dell’una e dell’altra, risulta evidente come quella del Legislatore a riguardo dell’articolo 2043 c.c. sia stata una scelta consapevole a favore della responsabilità extracontrattuale del medico, maturata anche in seguito ad un ripensamento della materia, e non una svista come vorrebbe taluna dottrina e giurisprudenza.
L’ultima e definitiva versione della legge rappresenta un intervento netto e preciso, che permetterebbe, qualora lo si volesse prendere per quello che è, di delineare alcuni punti fermi nell’ambito della responsabilità medica.
Essa sembra innanzitutto ispirata dalla necessità di un ripensamento della responsabilità del medico, e del sanitario in generale, sulla scorta di considerazioni attinenti alla enorme mole di procedimenti, sia civili sia penali, venutasi a creare negli anni e avente l’effetto di limitare l’attività medica da una parte e intasare i tribunali dall’altra.
Così, al fine di non mortificare l’esercizio dell’attività medica e di limitare le richieste di risarcimento, molto spesso avventate o pretestuose, nei confronti dei medici, il Legislatore ha innanzitutto deciso di esonerare dalla responsabilità penale per colpa lieve il medico che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. Naturalmente la previsione che maggiormente incide rispetto al passato è quella che stabilisce, ex art. 2043, la natura extracontrattuale della responsabilità del medico.
Esso quindi dovrebbe rispondere solo del fatto illecito, ma, nel corretto esercizio dell’attività medica, ossia nel perseguimento della sola finalità terapeutica, è da escludersi che possa volontariamente arrecare danno al paziente, mentre le condotte colpose con le quali può involontariamente arrecare danno al paziente sono da considerarsi soltanto se caratterizzate da colpa grave.
Qualora poi esso debba rispondere civilmente perché il fatto è oggettivamente commesso con colpa, anche lieve, la previsione dell’articolo 2043c.c. lo soccorre dal punto di vista degli oneri processuali in quanto, contrariamente a prima, spetterà al preteso danneggiato provare la condotta, commissiva od omissiva, che si assume aver causato il danno, la prova della colpevolezza e l’esistenza del nesso causale tra la condotta e l’evento concretizzante il danno ingiusto.
Si è già detto molto e ampiamente criticato l’orientamento giurisprudenziale inaugurato dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 589/99 e si è già mostrato come, se era dubbio che fosse corretto quando, in ogni caso, regolava la materia della responsabilità medica nei modi che conosciamo, oggi non è più possibile fare a meno di considerare nel giusto modo l’intervento legislativo effettuato tramite la legge di conversione del decreto Balduzzi, continuando a considerarlo valido.
Va da sé che sarebbe auspicabile un intervento della Cassazione la quale provveda a correggere le imprecisioni dell’orientamento da Essa tenuto fino ad oggi e riconosca una volta per tutte la natura extracontrattuale della responsabilità del medico.
Altro tema sensibile trattato dalla prima sezione del Tribunale di Milano con la causa n.11171/14 è quello del consenso informato.
Il giudice milanese riafferma il principio, oramai pacifico in giurisprudenza, secondo il quale non è sufficiente la firma apposta dal paziente sul modulo di consenso a rendere detto consenso efficace e giuridicamente valido.
Il giudice in questione utilizza delle motivazioni per un verso valide, ma in generale passibili di critica.
In particolare è condivisibile che si dubiti dell’efficacia di una firma su di un modulo a essere idonea a dimostrare l’avvenuto assolvimento degli oneri informativi di cui i sanitari sono gravati nei confronti dei pazienti, specie laddove la situazione clinica sia particolarmente complessa, tenuto conto del luogo, del momento e dello stato in cui avviene la firma.
D’altra parte la scelta rimane nelle mani del paziente, ed è prassi troppo comune quella di firmare documenti (consensi, contratti, rinunce eccetera) in ambito medico, ma anche in altri campi (bancario, commercio, contratti) senza la dovuta accortezza.
Sorge poi spesso il problema di come informare il paziente, dato anche che, se è previsto che la firma del consenso informato non basta da sola a rendere il consenso valido, non è dato di sapere cosa lo sia.
Nei casi più complessi, ma sovente anche in situazioni meno difficili, può essere difficile comunicare con precisione al paziente ogni fase dell’intervento e ogni possibile complicanza o effetto indesiderato dello stesso, o ancora prospettargli rischi e benefici dell’intervento in modo che i primi non siano sottovalutati e i secondi dati per scontato.
Le difficoltà, dato l’ambito tecnico della materia e il pubblico esteso, possono riguardare differenze culturali/tecniche talmente ampie da impedire una comunicazione corretta.
Quindi, fermo restando che la mancata prestazione di un valido consenso costituisce autonoma fonte di responsabilità per il medico, a prescindere dai risultati, in ipotesi anche ottimi, dell’intervento, in quanto rappresenta una sicura lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente, come ricordato dalla prima sezione del Tribunale di Milano, non si vede quale sistema dia più garanzie della, pur misera, sottoscrizione di un modulo informativo.
È infatti sempre la prima sezione a ricordare che la prova della lesione del diritto di autodeterminazione deve essere in ogni caso fornita dal paziente, con la conseguenza che “pur accertato l’inadempimento all’obbligo di informazione (…) in assenza di prova, all’attore non può essere risarcito alcun danno a titolo di lesione del consenso informato (…)”.
Qui l’argomentazione dell’estensore si fa un po’ criptica: difatti, è vero che la prova dell’inadempimento all’obbligo di informazione deve essere data dal paziente, ma appare ovvio che tale prova si renda necessaria in un secondo momento e sia diretta a superare il mero dato formale della prestazione della firma sul consenso attraverso testimonianze o altri mezzi che dimostrino che il consenso era solo apparente.
Se poi l’inadempimento è in ogni modo accertato, vorrà pur dire che una qualche prova esiste.
Una volta dimostrato l’inadempimento, tuttavia, occorrerà comunque dimostrare anche il danno che ne consegue, danno che non sarà di facile dimostrazione dato che non possiede un controvalore economico ed è di difficile indagine da un punto di vista non economico, riverberandosi al limite su aspetti psicologici del soggetto. ●

A cura di: Giovanni Pasceri