utilizzo dispositivi medici

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Partiamo dal presupposto formale che un Regolamento Europeo è un atto giuridico vincolante, diretto non solo agli Stati membri, ma anche ai singoli e ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri (art. 288 par. 2 TFUE).

Il Regolamento di cui trattiamo in questo caso è formato da ben 123 articoli e 17 allegati, e:
“stabilisce le norme relative all’immissione sul mercato, la messa a disposizione sul mercato o la messa in servizio dei dispositivi medici per uso umano e degli accessori per tali dispositivi nell’Unione. Il presente regolamento si applica inoltre alle indagini cliniche relative a tali dispositivi medici e relativi accessori condotte nell’Unione.”

Quali siano le conseguenze pratiche del regolamento in vigore sulle protesi avvitate su impianti lo si capisce già dalla definizione di dispositivo medico, ovvero qualunque strumento, apparecchio, apparecchiatura, software, impianto, reagente, materiale o altro articolo, destinato dal fabbricante a essere impiegato sull’uomo, da solo o in combinazione, per una o più delle seguenti destinazioni d’uso mediche specifiche:

  • diagnosi, prevenzione, monitoraggio, previsione, prognosi, trattamento o attenuazione di malattie;
  • diagnosi, monitoraggio, trattamento, attenuazione o compensazione di una lesione o di una disabilità;
  • studio, sostituzione o modifica dell’anatomia oppure di un processo o stato fisiologico o patologico;
  • fornire informazioni attraverso l’esame in vitro di campioni provenienti dal corpo umano, inclusi sangue e tessuti donati, e che non esercita nel o sul corpo umano l’azione principale cui è destinato mediante mezzi farmacologici, immunologici o metabolici, ma la cui funzione può essere coadiuvata da tali mezzi (Capo 1, articolo 2, paragrafo 1).

In altre parole, la norma riguarda qualsiasi strumento che impieghiamo per lavorare sui nostri pazienti e qualunque materiale che utilizziamo per realizzare in nostri manufatti.

Tranne rarissimi casi, tutti i materiali che acquistiamo e utilizziamo sono certificati secondo i criteri stabiliti da questa normativa, siano essi prodotti in serie (impianti dentari, viti di connessione, eccetera) che prodotti su misura come le corone realizzate dal laboratorio odontotecnico.

Di oltre 1 milione di impianti utilizzati ogni anno in Italia, più del 90% fa parte del gruppo “two-pieces implant systems”. Gli “impianti a due pezzi”, indipendentemente dal tipo di connessione (interna o esterna, conica o con morse, bone level o tissue level) e dal tipo di protesizzazione (fissata direttamente sull’impianto o interconnessa attraverso piattaforme tipo M.U.A, corona avvitata o abutment avvitato su cui verrà poi cementata la corona), prevedono una componente protesica che si fissa con una vite di serraggio.

Una volta serrata la vite che connette l’impianto con la protesi, onde evitare che il cemento (protesi cementata) o composito (protesi avvitata) occludano la testa della vite di serraggio, è necessario proteggere la vite stessa con un materiale di intercapedine.

L’industria dentale, tuttavia, non ha mai considerato questa necessità e fornito soluzioni che potessero soddisfare le esigenze cliniche nel rispetto della normativa vigente e della letteratura disponibile; i clinici si sono adeguati all’utilizzo di materiali non sviluppati a tale scopo. Pertanto, negli anni sono stati utilizzati diversi materiali, tra i quali un comune o banale batuffolo di cotone idrofilo (magari imbibito di antibiotico o collutorio), il nastro teflon dell’idraulico, la guttaperca, il silicone da impronta.

Nessuno di tali materiali, ovviamente, è certificato per tale utilizzo (la guttaperca è certificata per l’utilizzo in endodonzia ma non per la protesi (art.16/c)) né lo potrebbe essere perché mai supererebbe le stringenti richieste del Regolamento Europeo.

La maggior parte dei clinici è convinta che l’utilizzo di tali materiali sia innocuo per il paziente e consentito dalla legge, in quanto molto diffuso e addirittura pubblicato in diversi articoli scientifici. Sul piano formale, e anche su quello sostanziale, è esattamente il contrario.

Nella direttiva è chiaramente indicato che il fatto stesso che un prodotto venga utilizzato su un paziente, qualifica tale prodotto come dispositivo medico. Chiunque inserisca in un dispositivo medico principale (corona o abutment o mua) un secondo dispositivo medico (es. il teflon nel canale di accesso della vite) viene considerato, agli effetti di legge, il fabbricante di un nuovo dispositivo medico non certificato (art. 22 comma 4) e, allo stesso tempo, colui che lo mette in servizio (art. 5 comma 4). Tale azione è, come tale, sanzionabile indipendentemente dal fatto che il materiale possa o meno essere dannoso per il paziente. La modifica di un dispositivo certificato, come il sistema implanto-protesico, che si determina aggiungendo un dispositivo non certificato, come il teflon o il cotone o qualsiasi altro materiale, anche certificato ma per diverso utilizzo, rende quindi l’intero dispositivo illegale.

Di tale circostanza è responsabile l’operatore che ha fabbricato e utilizzato il dispositivo non certificato e, a nostro modo di vedere, anche il direttore (o il responsabile) sanitario, che ha consentito che tale attività si svolgesse, violando i propri compiti di vigilanza.

Da valutare infine la responsabilità del proprietario della struttura nella quale si è perpetrato l’illecito (posizionamento di dispositivo non certificato in un paziente). D’altra parte, la direttiva europea obbliga gli Stati membri a predisporre sanzioni “effettive, proporzionate e dissuasive in caso di violazione.” Il termine ultimo per gli Stati europei per predisporre tali sanzioni è 25 febbraio 2022.

Ad essere passibili di tali sanzioni dissuasive sono tutte le protesi su impianti, nelle quali siano stati inseriti dispositivi non certificati (teflon, cotone, materiale da impronte, guttaperca, eccetera).

Si può quindi chiaramente affermare che i dispositivi medici non certificati, usati come sigillanti nel caso descritto, non solo non rispettano le norme relative a fabbricazione, confezionamento e messa a disposizione sul mercato, ma contravvengono anche alle indicazioni contenute nel regolamento 745/2017, allegato I capo 2 11:

I dispositivi e i loro relativi processi di fabbricazione sono progettati in modo tale da eliminare o ridurre per quanto possibile i rischi d’infezione per i pazienti. La progettazione è tale da: … ridurre per quanto possibile qualsiasi dispersione microbica dal dispositivo e/o esposizione microbica durante l’uso, e… prevenire la contaminazione microbica del dispositivo o del suo contenuto, quali campioni o fluidi.”

È ben noto il problema della penetrazione del fluido crevicolare, derivante dal solco parodontale, attraverso il micro-gap che c’è tra impianto (qualunque sia la connessione) e la componente protesica. Attraverso tale gap i batteri colonizzano i dispositivi medici non certificati utilizzati per sigillare il tunnel di accesso alla vite di serraggio. In assenza di ossigeno e grazie alla abbondanza di nutrimento, si selezionano colonie di batteri anaerobi che notoriamente sono connessi con l’insorgere della malattia perimplantare. Tali batteri contaminano sin dalle prime ore di installazione del manufatto protesico i vari materiali “sigillanti” usandoli come substrato.

Il dottor Himal Hirani (UCLAN University of Central Lancashire) ha selezionato recentemente in una meta analisi i 5 lavori pubblicati fino ad oggi sulla contaminazione batterica dei materiali comunemente utilizzati come sigillante (Alshehri&Albaquiah 2017, Cavalcanti et al 2015, Davis 2017, Nascimiento et al 2015, Raab et al 2017) dimostrando che:

“Micrograps are present in any design of two-pieces implants and thus the ability of the internal occluding material is an influential aspect in reducing this microbial activity”.

La presenza di batteri, inevitabile in un impianto a due pezzi, è esperienza abituale per tutti i clinici che avvertono un odore caratteristico di putrefazione alla riapertura della camera di accesso alla vite di serraggio.

La questione appare significativa non solo dal punto di vista clinico, ovvero in termini di globale qualità della prestazione, ma anche sul piano odontologico forense/medico legale.

Se infatti, in un contenzioso centrato su attività di carattere implanto-protesico, emergesse l’utilizzo di materiale non certificato ove la legge indichi invece rigida e obbligatoria prescrizione all’utilizzo di materiali, (ovvero dispositivi medici e certificati), la violazione di adeguata e congrua condotta professionale apparirebbe, ipso facto, evidente.

E nemmeno la circostanza per cui l’uso di materiale non certificato sia possibile in caso di emergenza o di sperimentazione durante una ricerca scientifica potrebbe essere una valida giustificazione con le restrizioni e le linee guida dettate dal citato regolamento.

Tale comportamento è ancora più discutibile perché l’odontoiatra ha doverosa e perfetta contezza che l’utilizzo di materiali non certificati può causare danni al paziente. Non solo quindi il professionista utilizza (tecnicamente mette in servizio) un materiale che non è dispositivo medico certificato, contravvenendo alla legge vigente, ma agisce conscio del fatto che tale materiale è clinicamente dannoso e può produrre quindi effetti negativi.


Nella circolare del ministero della Sanità del 12 novembre intitolata “Indicazioni relative a taluni aspetti del Regolamento (UE) 2017/745” a cura della Direzione Generale dei Dispositivi Medici e del Servizio Farmaceutico inviata a tutti gli operatori della filiera e alle associazioni di categoria, tra le quali la FNOMCeO, e agli organismi di controllo, tra i quali i NAS e al Comando dei Carabinieri per tutela della Salute, viene ricordato che il Regolamento Europeo 745/2017 è pienamente operativo e nelle parti in cui ancora gli Stati nazionali non si sono adeguati fanno fede le disposizioni precedentemente vigenti descritte nei decreti legislativi 46/97 e 507/92. Per quanto riguarda la parte sanzionatoria sono valide le sanzioni previste al comma 7 dell’art. 23 del d.lgs. 46/97 per chiunque immetta sul mercato, metta a disposizione o metta in servizio dispositivi medici privi di marcatura CE o privi di certificato CE:
“Chiunque immette in commercio o mette in servizio dispositivi medici privi della marcatura CE o dell’attestato di conformità è punito, salvo che il fatto sia previsto come reato, con la sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da lire trenta milioni a lire centottanta milioni.


Tale comportamento espone senz’altro l’operatore anche al rischio di mancata attivazione, o di negata copertura, dell’assicurazione per avere tenuto una condotta di fatto illecita.

Un accertamento in tal senso invaliderebbe la procedura implanto-protesica nel suo complesso, anche solo per la circostanza, ingiustificata, della scelta di utilizzo di un materiale improprio al posto di un materiale adeguato e certificato, che nella complessiva attività riabilitativa non incide né per costo economico (irrisorio) né per difficoltà operativa, rendendo al contrario l’attività clinica ancor più semplificata.

per approfondimenti: Regulation (EU) 2017/745